Marco. Parte terza.
- Giorgia Valt
- 5 ott 2017
- Tempo di lettura: 7 min
Quella mattina avevo un gran sonno, non lo nego. Avevo fatto una gran fatica a tirarmi su dal letto, a radermi, a insaponarmi come si deve sotto la doccia. Il dopo sbornia mi aveva segato le gambe, quella mattina come ogni altra mattina. Di fare colazione non se ne parlava assolutamente. Proprio no. Mi misi in macchina, accendendo la radio e la prima sigaretta della giornata. Non che ci fosse nulla di interessante in radio, per carità. Mentre mi allontanavo dalla città verso la campagna circostante, i toni incalzanti della musica lasciavano il posto agli schiocchi elettrostatici del silenzio radio. La lasciai comunque accesa. Mi aveva svegliato la solita telefonata, quella mattina. Niente di sorprendente, anche se speravo di poter rimanere a dormire almeno fino alle nove. Niente da fare, nossignore. «Codice dodici nel settore tre. È richiesta la sua presenza.» «Quanti?» «Due.» «Cazzo.» Che palle. Due significava almeno un’ora di lavoro sul campo, prima di dover tornare alla base e sbrigare tutte le maledette scartoffie. Quanto avrei preferito mollare tutto e aprire un negozietto etnico di prodotti ecosostenibili. Arrivato sul posto, scesi dall’auto e mi feci largo tra la folla raccolta dietro i nastri della polizia. C’era gente che urlava minacce al vento, parlottii sommessi e impauriti, qualcuno che parlava con un tono di voce altissimo ma completamente inespressivo. Dentro doveva esserci qualcosa di tremendo. Entrai nell’abitazione e la trovai piena di gente in fibrillazione che camminava a grandi falcate da una stanza all’altra. Salivano e scendevano le scale con gli occhi sgranati e pallidi in viso. «Ce l’hai fatta, eh?». Preferii non risponderle e abbassare gli occhi fino a guardarmi la punta delle scarpe. Questi erano i momenti in cui detestavo avere un partner donna; in altre circostanze, invece, poteva tornare utile. «Devi smetterla.» continuò. Questa paternale andava interrotta immediatamente. «Di sopra?» «Di sopra.» Salii la rampa di scale facendo attenzione a non pestare i piedi di nessuno; seguii la fiumana di persone che andavano e venivano e giunsi fino alla camera da letto. «Porca puttana.». C’era sangue dappertutto. Sul pavimento, sul letto, sulla specchiera, sugli armadi, sulle finestre e sulle tende, sul soffitto e sul lampadario. Schizzi a medio e alto impatto quasi ovunque. Qualcuno doveva essersi divertito. Riverso sul pavimento in un lago di sangue c’era il cadavere di un uomo sulla trentina, mingherlino e con pochi capelli. Aveva ferite di arma da taglio su tutto il corpo, dai polpacci sino agli occhi; impossibile contarle per via dell’enorme quantità di sangue che lo ricopriva. Da sotto il letto era strisciata fuori una donna il cui collo era stato trapassato da quella che presumibilmente era l’arma che aveva ucciso anche l’uomo. Mi si avvicinò il perito ematologo. «Cosa abbiamo?» «L’assassino entra sfondando la porta chiusa a chiave, si avventa sull’uomo e lo trapassa più e più volte sul torso. Ci sono ferite da difesa sulle mani e sulle braccia. L’assassino getta a terra la vittima e continua ad infierire post mortem, aggredendo innanzitutto il volto e poi tutto il resto del corpo. Infine prende la donna da sotto il letto tirandola per i capelli e la uccide sul colpo nel modo in cui vede.» «Vedo. A che ora risale il decesso?» «Probabilmente dalle otto alle dodici ore.» «Ottimo lavoro. Continuate.» Mi voltai e con circospezione afferrai la fiaschetta che tenevo per emergenze del genere nella tasca interna del cappotto. La svuotai in un fiato solo e desiderai fortemente poterne svuotare altre dieci, di fiaschette. Ingoiai un conato di vomito e soffiai a labbra strette un rutto acido. Tornai all’ingresso nel tentativo di prendere una boccata d’aria. «Interroga i vicini. Io torno di sopra.» mi disse lei dandomi una pacca sulla schiena. Grazie a Dio: mille volte meglio parlare con vecchie pazze di periferia che restare di fronte a quel massacro. Uscii e mi recai verso il capannello di persone trattenute dalla polizia. «Chi ha voglia di parlare con me?» domandai a quella manica di anziani curiosi e annoiati. «Io lo so chi è stato.» borbottò il vecchietto più basso, grugnendo una serie di bestemmie sboccate. «E chi è stato, mi dica.» «Quello lì.» ruggì, indicando la catapecchia in fondo alla strada. Dal capannello si levò un mormorio preoccupato. «Chi sarebbe quello lì?» «Ci vada a parlare;» disse, aggiungendo una bestemmia, «ci vada a parlare.». Ci andai a parlare. Andai da solo, ignorando la regola d’oro di non parlare con nessuno senza la presenza di un collega. In realtà, ero convinto che quella casa fosse disabitata, a giudicare dallo stato indecente in cui versava. Mi aspettavo che il vicinato avesse popolato quelle mura di ogni capro espiatorio. Arrivai alla porta e premetti sul campanello. Chiaramente qualche meccanismo era rotto da tempo, e non produsse alcun suono. Bussai annoiato, contando fino a dieci in attesa prima di potermene tornare alla casa blu. «Chi è?». Oh, porca puttana. Il capro espiatorio esisteva per davvero, allora. «Chi è lei?» «Da dove vieni?» «Apra la porta.» «Sei armato?». Abbassai lo sguardo sulla pistola nella fondina. «No, non sono armato. La prego, apra la porta.» Ci fu qualche secondo di silenzio prima che dall’interno dell’abitazione provenne la stessa voce ovattata. Tesi le orecchie cercando di ascoltare ciò che stava dicendo. «No, dobbiamo parlare con lui. Socio, potrebbe aiutarci. Va bene.» La porta venne solamente socchiusa: lo spiraglio era troppo piccolo per poter vedere chiaramente l’individuo all’interno della casa. Senza un mandato, avrei dovuto accontentarmi di una sagoma. Sicuramente si trattava di un uomo enorme. «Chi sei?» «Devo farle delle domande. Ha due minuti da dedicarmi?» «Sbrigati. E’ pericoloso restare lì fuori.». Oh, porca puttana. «Dove si trovava dodici ore fa?» «Che razza di domande sono? Ti sembra una cosa importante da chiedere?» «La prego, risponda alla mia domanda.» «Eravamo in cerca di cibo.» «Dove, esattamente?» «Siamo arrivati fino alla fattoria oltre il ponte.» «E poi?» «Siamo tornati indietro.» «Indietro dove?» «Alla casa blu.». Oh, porca puttana. «Cosa ha fatto nella casa blu?» «Ho ucciso i due che ci abitavano.». Oh. Porca. Puttana. «Può ripetere?» «Li ho uccisi. Erano marci.» Non avevo idea di come comportarmi. Si trattava di una confessione in piena regola e non c’era nessun altro lì ad ascoltarla assieme a me. Se me ne fossi andato, lui sarebbe fuggito per sempre: non potevo lasciarmelo scappare. «Le spiace lasciarmi entrare? Come ha detto lei, è pericoloso qui fuori.» L’uomo sbatté violentemente la porta e continuò a parlare con la persona che si trovava nella casa assieme a lui. «Ha ragione, Socio. Non opporti: ho deciso così e così si farà.». L’uomo spalancò la porta e la prima cosa che notai fu una puzza nauseabonda di carne marcia. Un odore talmente forte che mi causò un violento capogiro e dovetti appoggiarmi allo stipite della porta. «Entra. Veloce.». Entrai, e non so nemmeno perché. L’uomo mi chiuse la porta alle spalle in un baleno. La stanza era buia, e si riuscivano solo a distinguere i contorni delle cose. La puzza fetida mi appannava gli occhi con uno strato di lacrime. Non riuscivo a respirare. «Hai bisogno di mangiare?». Non risposi. Non potevo. Non riuscivo. «Sì che abbiamo abbastanza cibo anche per lui. Guarda com’è deperito: dobbiamo aiutarlo.» Tra le lacrime mi sembrò di scorgere un’altra sagoma nel buio. L’uomo mi prese un braccio e se lo mise attorno al collo: la puzza che proveniva dalle sue ascelle era peggio di qualsiasi altra cosa che avessi mai odorato. Trattenni il fiato per innumerevoli secondi, mentre mi aiutava ad attraversare l’atrio e mi faceva accasciare su una poltrona lurida. «Come ti senti?». Mentre aspettava una mia risposta, si mise di fronte all’unico fascio di luce che proveniva dalla finestra coperta da tavole di legno. Era completamente ricoperto di sangue, dalla testa ai piedi. Sangue vecchio, marrone, marcio. «E’ una pistola, quella?» «Io, eh, quella, sì. E’ una pistola.» «Perché mi hai mentito, poco fa?» Restai in silenzio per qualche secondo, cercando di valutare attentamente le mie parole successive; nonostante l’afa e l’aria soffocante, la mia schiena era sconvolta da violenti brividi e avevo la punta delle dita ghiacciate. «Non si sa mai. Non volevo scoprire tutte le mie carte. Avresti potuto portarmela via, oppure uccidermi all’istante.» L’uomo borbottò qualcosa a mezza voce, masticando ogni lettera, rendendo impossibile capire cosa stesse dicendo. Il suo tono di voce pareva soddisfatto e compiaciuto, tuttavia. Riempì a fondo i polmoni e si grattò la sommità della testa. «Sei stato fortunato a trovarci, sai? Possiamo aiutarti. E tu poi aiutare noi. Ci aiuteremo a vicenda.» Boccheggiavo. Lentamente le mie narici si stavano abituando a quel fetore. «Aiutarci? Per cosa?» «Sei stupido? Non lo vedi cos’è là fuori?» «Cos’è cosa?» «Cosa? Il mondo. E’ distrutto.». A cosa si riferiva, di preciso? La società, il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo. «Cosa?» «E’ arrivata la fine del mondo. L’apocalisse è là fuori.». Restò in silenzio per qualche secondo, fissando un punto imprecisato nel vuoto. Lo guardava come se ci fosse qualcosa da vedere. «Socio, sì, hai ragione. Non c’è bisogno di esprimersi con questa violenza, però.» «Chi è Socio?» «E’ il mio trovatello.» disse con un tono amorevole, indicando quello stesso punto nel vuoto. «Mi ha aiutato ad andare avanti in questi mesi. A trovare del cibo per sopravvivere alla fine del mondo.» «Non c’è nessuna fine del mondo, là fuori.». L’uomo scoppiò in una fragorosa risata, sinceramente divertita. «Chiamala come ti pare. Io so solo che sono quasi tutti morti. E anche i vivi, quelli che sono marci dentro, devono morire come tutti gli altri.» Non riuscivo a dire nulla, non riuscivo a proferire alcuna parola. Ero allibito, atterrito, terrorizzato. Ero da solo in una situazione del genere. Cazzo. «Ho ucciso i due nella casa blu perché erano marci. Io e Socio li abbiamo salvati. Ora ci aiuteremo. Ti aiuterò.» Porca puttana. Porca puttana. Porca puttana. Il cuore mi batteva all’impazzata nella gola, nelle orecchie, negli occhi. Mi alzai a fatica e cercai di trascinarmi verso la porta d’ingresso, ma l’uomo mi si parò davanti, bloccandomi la strada. «Dove pensi di andare? Lì fuori si muore. Tu resterai qui con noi. Noi ti terremo al sicuro. Faremo in modo che tu non marcisca dentro.».
Non so quanto tempo è passato dal quel giorno.

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