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Marcio. Parte seconda.

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 14 set 2017
  • Tempo di lettura: 4 min

Lasciai che fosse Socio a bussare alla porta della casa blu. Io mi feci da parte, osservando distrattamente gli arbusti marci ai lati del vialetto di ingresso. Vidi con la coda dell’occhio del movimento in una delle finestre al piano superiore.

«Non c’è nessuno, Capitano.»

«Ci sono; ci sono sempre. Lascia provare a me.»

Mi avvicinai al vetro opaco della porta d’ingresso e scrutai all’interno, alla ricerca di segni di vita. Colpii leggermente con le nocche sul legno spesso e rimasi in attesa, in silenzio. «C’è nessuno?» domandai, con la voce più cordiale di cui disponevo. Forse si erano davvero divorati l’un l’altro, nel disperato tentativo di sopravvivere. Avvertii lungo la spina dorsale un brivido che non riuscii a interpretare.

«C’è nessuno? Cerchiamo aiuto.» dissi, con un tono di voce più alto, perché mi sentissero anche dal secondo piano.

«Capitano, andiamo via. Qui non c’è nessuno.»

«Non disperare. Arriveranno.»

Mi immaginai una larva umana, distrutta dall’inedia e dalla follia, strisciare lungo le scale e lungo i corridoi, nel tentativo disperato di raggiungere la porta d’ingresso e intrattenere con un altro essere umano una relazione normale.

«Aprite!»

«Vattene!» sentii urlare da dietro la porta. Porca misera, eccoli lì: vidi una sagoma nera dietro il vetro smerigliato della porta. Perché non volevano aprirci?

«Per favore, cerchiamo aiuto.»

«Capitano, forse è il caso di andare via.»

«Non dire sciocchezze. Si accorgeranno che dobbiamo stare insieme. Dobbiamo aiutarci a vicenda.»

«Vattene!»

Cosa fare? Il mio stomaco borbottò violentemente, e gli tirai un pugno per farlo stare in silenzio. Evidentemente erano impazziti, restando rinchiusi in casa per settimane: respingevano il contatto umano scambiandolo per una minaccia alla loro incolumità. Non ci avrebbero mai aperto.

«Vi possiamo aiutare. Possiamo aiutarci a vicenda.»

«Tu sei pazzo. Vattene via!». Non avrebbero mai aperto. Decisi che l’unico modo per fondere le nostre famiglie era con la forza. Quando avrebbero capito le nostre ragioni, ci avrebbero sicuramente ringraziato.

Tirai un calcio alla maniglia del portone sperando di riuscire a spezzare il legno ormai marcio dello stipite. Non successe nulla, tranne che qualcuno all’interno dell’abitazione urlò. Era uno strillo femminile, agghiacciante e terrorizzato. Sentii i passi di una corsa su per le scale, e poi silenzio.

«Capitano? Cosa stai facendo?»

«Questo è l’unico modo per entrare. Lo capisci?». Non aspettai la risposta di Socio: in realtà non mi interessava se lui era in grado o meno di capire l’esigenza di entrare in quella casa. Aiutarci a vicenda.

Assestai un nuovo calcio sulla porta, lanciandomi con tutto il peso del mio corpo. Il legno cedette e in una frazione di secondo mi ritrovai per terra, tra le schegge dello stipite e la sporcizia sul pavimento. Una donna strillò nuovamente, al piano di sopra. Un urlo ovattato, questa volta.

«Vi prego, scendete. Dobbiamo parlare.». Nessuna risposta. «Ci possiamo aiutare.»

Mi guardai rapidamente attorno. La luce del giorno filtrava dalle tende che coprivano le finestre e cadeva su un tavolino coperto da due dita di polvere; in un vaso sul camino troneggiava un mazzo di rose avvizzito da mesi. Sul divano dormiva il cadavere in putrefazione di un gatto, circondato da una nidiata di ratti impegnati a divorare le carni marce dell’animale. Il tutto era avvolto da un olezzo micidiale di decomposizione e follia.

«Che puzza indicibile. Il nostro scantinato puzza meno di questa casa. Vero, Capitano?». Sì, vero. Dovevamo davvero aiutarli.

Attraversai il soggiorno cercando di non posare lo sguardo su nessun dettaglio dell’ambiente: faticavo a sopportare tutto quel degrado di menti umane. Quelle persone andavano aiutate. Arrivai in cucina e dovetti appoggiarmi allo stipite della porta per non vomitare. Avanzi di cibo risalenti a mesi prima erano ammucchiati nel lavandino, su cui troneggiava una colonia di vermi e mosche. La tavola era imbandita con cocci di stoviglie e bicchieri, e il pavimento era dipinto da strisciate di sangue secco da tempo. E, ancora, quella puzza nauseabonda.

«Che schifezza.» commentò Socio, alle mie spalle. Come avevano potuto vivere in questo modo per tutto quel tempo?

In un angolo della cucina vidi il manico di una scopa, e mi venne un’idea. Non sapevo se avrebbe funzionato, ma valeva comunque la pena di tentare. Alla fine, mi avrebbero ringraziato. Afferrai la scopa, e con la mano libera iniziai ad aprire tutti i cassetti e i pensili. A volte mi restava in mano l’anta o il pomello per via del legno marcio.

«Cosa stai cercando?»

«Dammi la tua maglietta.»

«Cosa?»

«Ho detto dammela.»

«Anche tu hai una maglietta. Usa la tua. Non voglio prendere malattie, qui dentro.»

Inghiottì un’imprecazione. Trovai ciò che cercavo in breve tempo, in uno dei cassetti, e mi tolsi la camicia.

«Cosa fai?». Il tono di voce di Socio era insicuro, forse spaventato. Perché era spaventato?

«Li aiuto.»

Mi avviai verso le scale che conducevano al piano di sopra: i gradini scricchiolavano sotto al mio peso. Mentre salivo, usai la camicia per legare stretto il manico del coltello all’asta della scopa. «Capitano?»

«Stai zitto. Resta qui.»

Per i successivi dieci minuti, le pareti della casa vibrarono di urla disumane; quando uscii dall’abitazione ero sporco di sangue fino ai gomiti. Trovai Socio seduto sui gradini che si copriva le orecchie con le mani.

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