Marcio. Parte prima
- Giorgia Valt
- 23 ago 2017
- Tempo di lettura: 5 min
C’era sangue ovunque. Ma veramente ovunque. Persino sulla lampadina ad incandescenza che pendeva dal soffitto erano finiti degli schizzi. Gocce allungate che erano evaporate e si erano incrostate sul vetro bollente. Parte del sangue era vecchio, e puzzava di marcio. Tutta l’aria puzzava di marcio, per la verità. L’odore nauseabondo era penetrato nelle pareti, si era insinuato nelle gallerie dei tarli e impregnava il legno. Pure io puzzavo di marcio, anche se il sangue sul mio grembiule era fresco. Ero io ad essere marcio, marcio dentro e marcio fuori. Non che me ne importasse, sia chiaro. Per la verità, mi provocava una sorta di fascino ributtante il pensiero di avere le budella piene di parassiti saprofagi. Me li immaginavo sotto le unghie, tra i denti, dentro gli occhi. Una volta mi sono tagliato la falange di un dito, per vedere cosa c’era dentro. Non ci ho trovato nulla di interessante, ma a quel punto era troppo tardi per riattaccarlo. Con altri due colpi di mannaia staccai di netto la zampa e la gettai in mezzo al mucchio. Con il dorso dell’avambraccio mi asciugai il sudore dalla fronte e sputai in un angolo dello stanzino un grumo di catarro verde fosforescente. «Ma che schifo.» esordì Socio, scendendo le scale. «Tu cambiati le mutande tutte le mattine, invece di venirmi a dire che faccio schifo. E lavati i denti, caspita.» «Sì, sì, come ti pare.» Mi accorsi immediatamente che Socio aveva pensato di concludere la frase con un’imprecazione: l’esperienza gli aveva insegnato che certe parole non si usano, in casa mia. Alla prima parolaccia che gli sentii dire, gli tagliai la punta della lingua con un paio di forbici da sarta. Non si bestemmia, non si impreca. Siamo esseri umani, per Dio. Non maiali. «Vuoi finire tu, qui, Socio?» «Volentieri. Cosa manca da fare?» «Principalmente le costolette. Falle come si deve, per favore. Vado di sopra.» «Sì, Capitano.» «Quando hai finito, andiamo.» «Sì, Capitano.» Dopo essermi tolto il grembiule di plastica e aver sciacquato le mani e le braccia, andai al piano superiore. Sentivo ancora il sangue secco sulle guance e sulla fronte, e nonostante questo decisi di buttarmi in poltrona. Ero esausto, dopo due ore di lavoro senza sosta: mi bruciavano i muscoli delle braccia e mi scricchiolavano le ginocchia. Sentivo i piedi gonfi e le mani secche. Mi prudevano i bulbi oculari. Afferrai la rivista sul tavolino e sfogliai stancamente le pagine indurite: seni e posteriori ingialliti, presidenti e capi di stato, lettere che formavano parole non più lette. Erano vere, quelle persone? O erano pieni di parassiti o peggio, morti, gettati sul fondo di una fossa comune senza un nome, con le lingue divorate dai vermi, marci dentro e marci fuori. Lanciai la rivista sul pavimento sbuffando e sperando di non vederla mai più. «Capitano?» sentii urlare dallo scantinato. «Cosa.» risposi, urlando. «Io ho finito, qui sotto.» «Allora pulisci tutto.» Non sentii la risposta. Non mi importava ascoltarla. Volevo soltanto che si sbrigasse a pulire quel macello di sangue e membra prima che il tavolo si incrostasse e non si riuscisse più a scrostarlo. Per troppo tempo avevo lasciato che le interiora e gli schizzi di sangue rimanessero a seccare, insozzando lo scantinato e permeandolo di una puzza nauseabonda. Non che mi turbasse, la puzza: anzi, riusciva a farmi sentire in un ambiente familiare e protetto. A Socio, invece, infastidiva: quando lui si era unito alla famiglia, si era rifiutato categoricamente di scendere nello scantinato per via del fetore. Io lo aiutai come potevo, in ogni cosa. Gli insegnai le buone maniere e il rispetto, a usare una mannaia e a cucinare. Lui mi aiutò nelle mansioni domestiche quotidiane, sempre con il suo sorriso allegro e pieno di buchi. Socio nel tempo aveva infatti perso quasi tutti i denti: quando trovavo uno dei suoi denti in giro per casa li spaccavo con il martello, per vedere cosa c’era dentro. Niente di interessante, davvero. Socio salì dopo poco tempo, asciugandosi le mani umide nel suo straccio da lavoro. «Tutto fatto, Capitano. Andiamo?» «Sì. Mettiti le scarpe. Andando in giro a piedi scalzi ti farai male, prima o poi.». Non lo sopportava quando gli parlavo così; le sue reazioni isteriche mi facevano ridere ogni volta, per questo insistevo con il tono premuroso. Ah, povero Socio. Che destino infelice, per lui. Per tutti noi. Prima di uscire dalla porta di casa indossai la maschera, e invitai Socio a fare altrettanto; lo sentii grugnire dietro al vetro che gli copriva la faccia. Aprii la porta e il calore dell’aria del pomeriggio mi entrò nei vestiti. «Dove stiamo andando, oggi?» «A nord-est, dopo il ponte, c’era un allevamento. Andiamo a vedere lì.» «D’accordo, Capitano.» In fila indiana seguimmo la strada, evitando i rottami e gli alberi caduti. Le persiane della casa blu vennero sbattute violentemente dall’interno, al nostro passaggio. Ci osservavano perché avevano paura di noi, nonostante i miei ripetuti tentativi di fondere le famiglie. Soprattutto dopo la morte di Alice, gli adulti ci avevano evitato come la peste. Chissà di cosa si nutrivano, rinchiusi lì dentro. Forse delle loro dita, delle loro braccia: si tagliavano in pezzi, a partire dalle estremità, prima le dita, poi tutti i piedi e le gambe e si mangiavano un po’ alla volta solo per restare in vita, marci fuori e marci dentro. No, forse no. Sollevai la mano in segno di saluto pacifico, come facevo ogni volta. E come ogni volta, nessuno rispose alle mie buone maniere. «Mi fanno davvero arrabbiare, lo sai? Davvero tanto.» «Lo so, Socio, lo capisco. Ognuno fa quello che crede sia meglio per la propria famiglia. Ma sono in errore, e se ne renderanno conto.» Quando arrivammo all’allevamento, dopo qualche ora di cammino, mi resi immediatamente conto che di tutto il bestiame nella zona sopravvissuto dopo l’evento, una parte l’avevamo già macellata e il restante era morto a causa dell’aria malsana. Le strutture e la casa erano malmesse e di sicuro abbandonate, l’acqua del piccolo torrente era di un colore rossastro; nelle stalle erano rimaste tre vacche, ormai morte da settimane che, come tutto il resto del mondo, puzzavano di marcio. Le nuvole gialle e basse creavano una patina densa attorno al sole. Ogni cosa sembrava malata. «Pensi che potremmo mangiarle comunque, queste?» «Sono contaminate. Così come l’acqua lì fuori. Come noi due.» «Cosa facciamo ora?» «Gli altri allevam
enti sono troppo lontani da raggiungere a piedi. Dobbiamo lasciare la casa e spostarci verso nord.» «Non ci sono altre alternative? Non voglio trasferirmi.» «E allora dobbiamo trovare qualcos’altro da mangiare.» «Tipo topi e scarafaggi?» «Non stavo pensando esattamente a topi e scarafaggi.»

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