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Senza titolo

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 6 lug 2017
  • Tempo di lettura: 12 min

Il sapore denso del sigaro gli rimase impigliato sotto la lingua, dopo l’ultima boccata. La luce che filtrava tenue dalle tende leggere si posava sull’ultima pagina del manoscritto ancora incastrata tra le bobine della macchina da scrivere. Michele si guardò la punta delle dita la cui pelle era ispessita e annerita da anni di scrittura. Quando aveva iniziato a scrivere era ancora un ragazzo ignorante e sperduto: la macchina da scrivere gli aveva insegnato a vivere, a capire le persone e analizzare le situazioni. La macchina da scrivere lo aveva reso l’uomo che era e gli aveva salvato la vita. Srotolò il foglio e lo tenne spiegato tra le mani, scrutando ogni lettera, ogni sbavatura di inchiostro. Fissò la parola fine scritta in fondo al foglio, da sola: si sentì riempire da quella sensazione che conosceva bene, quella che gli invadeva il petto quando finiva un romanzo. Una sensazione di vuoto e di pieno, un’amarezza che gli faceva arricciare le labbra e il naso ma che gli faceva anche distendere i muscoli dietro al collo. Aveva finito il romanzo numero settantadue. Adagiò l’ultima pagina del manoscritto in cima alla risma di fogli che rappresentava il suo libro e ci poggiò sopra il fermacarte di marmo regalatogli da Pasquale trent’anni prima. Prese tra pollice e indice il sigaro che gli pendeva dalle labbra e lo premette nel posacenere, spegnendone la brace. L’aria nella studio era torbida per il fumo; si abbandonò sullo schienale della sedia, socchiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie con la punta delle dita. Mancava ancora il titolo. Quello era sempre il tasto dolente della sua produzione, e a volte capitava che non fosse lui a scegliere il titolo del suo romanzo. A volte capitava che Nadia, dopo aver letto tutto il libro, se ne uscisse con il titolo adeguato; e Nadia aveva sempre ragione. Iniziò a pensare a qualche ipotesi per il titolo. Forse “Il burro nocciola”. Temeva però che fosse un titolo troppo semplice, troppo poco interessante: si immaginò il lettore medio che butta un occhiata rapida alla vetrina della libreria e che deve essere catturato prima da una bella copertina, e poi da un bel titolo. “Il burro nocciola” non andava bene. “Quando il burro brucia” forse poteva andare meglio. No, troppe labiali e dentali. No. Prese la cornetta del telefono dello studio e compose il numero di Nadia. «Pronto?» «Ciao, Nadia. Volevo solo farti sapere che ho finito il romanzo.» «Signor Umetti, sono in riunione con un cliente. Le dispiace se la richiamo io tra un’oretta?» «Certo. A più tardi.» «La ringrazio.» Michele sospirò, crollando contro lo schienale della sedia. Il silenzio della casa lo inquietava vagamente, in circostanze del genere: quando cercava un contatto con l’esterno e l’esterno lo respingeva, il silenzio ronzante delle pareti del suo appartamento gli metteva paura. Si sentiva sopraffatto da una claustrofobia di cui in realtà non soffriva che gli attanagliava lo stomaco e la base della gola. Si alzò e riposizionò la sedia contro il bordo della scrivania; prese saldamente le centinaia di pagine del manoscritto e le chiuse dentro la piccola cassaforte nell’armadio. Provò ad aprire l’anta di metallo e quando si accorse che era impossibile da smuovere nemmeno con tutta la forza delle sue braccia, si sentì soddisfatto e protetto. Doveva uscire, sfuggire a quel silenzio. All’ingresso afferrò il trench e lo tenne stretto nella mano chiusa mentre chiudeva la porta di casa con tutte le mandate. Mentre scendeva le scale del palazzo, si infilò il soprabito e si accorse di aver lasciato sulla scrivania il portafoglio: si tastò le tasche dei pantaloni trovando fortunatamente il fondo emergenze composto dalle monete di piccolo taglio. Uscendo sbatté il portone alle sue spalle. Mentre camminava con le mani in tasca diretto verso la sala da tè, chinò il capo e lasciò i suoi pensieri perdersi. Il romanzo appena concluso funzionava: aveva il ritmo giusto per catturare il lettore giovane e una serie di riflessioni intellettuali ed esistenziali rivolte al lettore maturo. Il sistema dei personaggi era sufficientemente strutturato per la vicenda corale che si dipanava lungo le ottocento pagine del libro. Un romanzo colossale. Tuttavia, c’era qualcosa nello stile della narrazione che non lo convinceva appieno: una cadenza a volte scomposta, una leggerezza di esposizione che forse non rendeva appieno la profondità del dramma. Nadia avrebbe saputo aiutarlo a portare alla piena realizzazione la sua opera. Distratto dalla sua analisi, non si accorse che davanti alla sala da tè c’era Pasquale che stava fumando una smilza sigaretta da donna: l’amico agitò con forza la mano per catturare l’attenzione di Michele. «Michele!» urlò a squarciagola quel coglione. Mentre camminava verso la sala da tè, sollevò per errore la testa e lo vide: per una frazione di secondo, ogni cosa nel suo organismo si arrestò. Le cellule smisero di respirare e la pompa sodio-potassio smise di pompare. I bastoncelli nei suoi occhi non riuscirono più a catturare le radiazioni luminose; gli enzimi smisero di catalizzare le reazioni chimiche. Non avrebbe mai voluto incontrare Pasquale. Non oggi. Non così. Michele rispose al saluto facendo ondeggiare mollemente la mano e tentando di abbozzare un sorriso limitandosi a sollevare le guance. «Ciao.» gracchiò quando entrò nella sfera gravitazionale di Pasquale: a quel punto era troppo tardi per tirarsi indietro. «Che ci fai qui?» «Qui dove?» «Qui fuori, nel mondo reale.». Pasquale rise, lasciando precipitare la sigaretta al suolo e spiaccicandola con il tacco della scarpa in pelle. «Entriamo.» Erano stati ottimi amici, da ragazzi: avevano condiviso le emozioni stordenti dell’adolescenza, le preoccupazioni dell’età adulta e i primi acciacchi. Avevano anche condiviso forse qualche donna e sicuramente qualche canna. Michele aveva visto Pasquale sposarsi, avere figli e nipoti; Pasquale aveva visto Michele pubblicare il primo romanzo e farsi lentamente strada nel panorama editoriale. Poi Pasquale aveva iniziato a scrivere. Per gioco. Quella merda ambulante aveva iniziato a scrivere e nel giro di qualche mese aveva vomitato il suo primo lavoro. Michele l’aveva letto una sera, prima di andare a dormire: l’aveva trovato profondo quanto una sabbionaia e intenso quanto un giro in autobus. Aveva sorriso con affetto quasi paterno quando il mattino dopo aveva restituito all’amico le trenta pagine elargendo complimenti da diabete. Quella merda ambulante aveva mandato il lavoro ad un editore, giusto per vedere quanti avrebbero apprezzato il suo schifo di libro. E quella merda ambulante di editore l’aveva trovato un romanzo geniale, una rivelazione, una promessa. Una cazzo di promessa. Immediato best seller. Quella merda ambulante aveva deciso che forse non era così male, a scrivere. E aveva scritto un altro libro, identico al primo. E così, mentre il secondo lavoro diventava un secondo best seller, una merda ambulante di regista aveva proposto a Pasquale di girare un film ispirato al suo libro. Pasquale aveva firmato dozzine di carte e altre persone avevano firmato dozzine di assegni. Senza nessuna preparazione tecnica, senza nessun interesse letterario, senza nessun sacrificio, quella merda ambulante era diventato il fenomeno editoriale che Michele avrebbe sempre voluto essere. L’odio viscerale esplodeva e dilagava ogni volta che capitava che si incontrassero: sì, perché da un paio di anni a questa parte, i loro incontri avvenivano solamente per caso. Michele rifiutava sistematicamente ogni invito a cena, alle feste di compleanno, alle presentazioni, agli eventi, ai saloni del libro, alle letture drammatiche, alle prime, a teatro, a bere un caffè. E Pasquale era talmente coglione che non si era nemmeno accorto che Michele lo stava evitando. Ma la cosa peggiore si tutte era che Pasquale sosteneva con forza di aver solo avuto fortuna. Che schifezza. Entrarono nella sala da tè mentre Michele vagliava tutte le scuse che gli venivano in mente per allontanarsi senza suscitare sospetti. Si recava nella sala da tè ogni volta che terminava sia di leggere che di scrivere un romanzo: ordinava un tè Pu’er e lo sorseggiava lentamente con gli occhi chiusi, pensando a quale storia dedicarsi successivamente. Se ne andava solo quando aveva deciso oppure quando il tè era diventato freddo. Pasquale si faceva strada all’interno del locale, salutando avventori, cameriere e baristi, elargendo sorrisi e gesti da messia in pensione. Lo stronzo gli aveva anche copiato l’abitudine e la passione del tè. Si sedette ad un piccolo tavolo in un angolo e indicò a Michele la sedia libera di fronte a lui. Non appena si furono accomodati e tolti i soprabiti, accorse una cameriera zuccherina: i suoi capelli erano rosso scarlatto raccolti in una lunga treccia spessa. La ricrescita nera sulla nuca si vedeva bene, creando un effetto visivo molto fastidioso. Aveva gli incisivi storti. «Cosa vi porto, signori? Buongiorno, signor Dandi.» «Ciao, Silvia. Due Pu’er, per favore.» «All’arancia o alla vaniglia?» «Arancia, per favore.» «Subito.». La ragazza svanì facendo ondeggiare ridicolmente il posteriore; Michele osservò Pasquale venire ipnotizzato da quel dondolio. Assunse un’aria arcigna. «Spero non ti dispiaccia se ho ordinato anche per te. Dopo tanti anni ho imparato cosa ti piace bere.» «Sì.». Lo stomaco di Michele si rivoltò nell’addome, a sentire queste parole. Iniziò ad avvertire un formicolio alla base della gola. Per qualche minuto nessuno di loro parlò; il loro silenzio era disturbato dai rumori del locale, le voci basse che insieme si univano in un parlottio sommesso, gli schiocchi delle posate sulla ceramica. Pasquale estrasse il cellulare dalla tasca e si mise a far scorrere la punta dell’indice sullo schermo. Michele sapeva che nei contesti sociali l’etichetta chiedeva che tutti i presenti al tavolo stessero al telefono contemporaneamente: perciò si tastò tutte le tasche dei pantaloni alla ricerca del suo cellulare. Non trovandolo, sperò di averlo lasciato sulla scrivania assieme al portafoglio. Restò in silenzio, guardando alternativamente i presenti in sala e il vuoto. «Eccomi, eccomi, signori.» trillò una voce alle sue spalle. Pasquale alzò gli occhi dallo schermo del cellulare e Michele vide sul suo volto lo sguardo bovino da social network; sollevò un angolo della bocca e un sopracciglio. La cameriera appoggiò sul bordo del tavolo un enorme vassoio d’argento annerito sui bordi: servì ai due uomini le due tazze ancora vuote, la teiera bollente e un piattino su cui erano appoggiati i due infusori. Nascose il vassoio dietro la schiena e si piegò in un piccolo inchino imbarazzato. Pasquale strizzò un occhio in una pallida imitazione di un ammiccamento e la cameriera si allontanò sorridendo. La pelle del suo viso era dello stesso colore dei suoi capelli. Michele allungò le braccia per servire il tè. «No, lascia. Faccio io.» proruppe Pasquale alzandosi in piedi. Aprì la teiera, aprì gli infusori e buttò nell’acqua bollente il loro contenuto. Michele osservò tutta la scena: per ogni istante che passava, i suoi occhi si sgranavano e i capelli cortissimi alla base del collo si rizzavano. Cosa cazzo stava facendo quel coglione di merda? Non è così che si beve il cazzo di Pu’er. Rimase paralizzato mentre Pasquale mescolava l’acqua con il cucchiaino: e di nuovo le cellule smisero di respirare e la pompa sodio-potassio smise di pompare. Quanto gli piacevano queste immagini anatomiche. Decise che il prossimo romanzo avrebbe parlato di un medico storpio. «Quindi hai finito il libro?» domandò Pasquale, versando il tè nelle tazze come un monaco zen. L’infusione era durata meno di un minuto e il liquido era appena opaco. Michele guardava l’acqua sporca scivolare dalla teiera alla tazza. «Cosa?» mormorò; la sua voce sembrava provenire da un altro universo. «Il libro. L’hai finito?» «Sì.» «Com’è venuto?» «La solita merda.» «Ah.» Il formicolio che aveva iniziato sentire nella gola qualche minuto prima stava diventando sempre più intenso e fastidioso. Tossì a bocca chiusa e deglutì. «Non dovresti dire così dei tuoi lavori.». Michele aprì la bocca per rispondergli di farsi i cazzi suoi, ma cambiò idea appena in tempo. Prese la tazza calda tra le mani e guardò il liquido quasi trasparente. «Lo sai qual è il problema dei tuoi romanzi?» Michele scelse di non dire nulla. E di non alzare nemmeno lo sguardo. «Sono complessi. E non è un male; non lo è affatto. Sono storie belle e scritte bene, si vede che le studi nei minimi dettagli prima di iniziare a scriverle.». Ottima proprietà aggettivale, si trovò a pensare Michele, nascondendo un sorriso. Lo stava ascoltando, anche se non voleva nemmeno sentirlo. Tossì di nuovo a bocca chiusa. «Ma sono comunque storie difficili, con tante riflessioni sulla vita e la morte. Le casalinghe non leggono questa roba. Le casalinghe leggono la merda che scrivo io. I miei romanzi sono solo prodotti del mercato, non prodotti dell’estro come i tuoi. Io ho solo avuto la fortuna di aver scritto per caso quello di cui le casalinghe avevano bisogno, sai che bello. Tu sei un artista: tu hai passione, hai talento, hai tecnica. Hai decine di cose meravigliose che io non avrò mai, e che non voglio nemmeno avere. Sei tu lo scrittore; non io.» Quanto parlava. Mamma mia, perché non stava zitto? Tanto aveva da dire sempre la solita manfrina sul mercato e sul talento artistico: chissà poi quale senso di colpa doveva espirare. Sicuramente Pasquale sapeva di aver rubato il posto che a lui spettava di diritto: c’era quel vuoto editoriale, quel posto sullo scaffale della libreria che aspettava solo i romanzi di Michele Umetti. Invece Pasquale Dandi, quello stronzo del signor Dandi, gli aveva rubato il posto. Si schiarì la voce nel tentativo di mandare via il fastidioso prurito che gli attanagliava la gola. «Il film che stanno facendo, sai? E’ una schifezza. Attori che il mio cane recita meglio. La trama è completamente snaturata. Verrà una merda, e lo sappiamo tutti, dal regista, alla produzione alle cassiere nei botteghini.». Michele aprì la bocca e vi gettò all’interno una sorsata di tè: il pizzicore non accennava a diminuire. Bevve un’altra sorsata e tossì a bocca chiusa. «E ora l’editore mi sta con i denti alla gola perché vuole il terzo romanzo. Come se due in quindici mesi non fossero sufficienti. Io ho altri impegni, ho una famiglia, ho degli interessi e delle cose da fare. Non è che posso stare tutto il tempo a scrivere.» Che frase infame da sentir dire, porca miseria. Aprì la bocca per ribattere a quella frase infame ma la sua intenzione venne soffocata da un violento accesso di tosse. «Quindi ora sono costretto a passare almeno due ore al giorno davanti al computer e – ti senti bene?» Bevve altro tè. Nel recesso della sua mente ancora consapevole e lucido si rese conto di quanto facesse cagare quella bevanda, che in quel momento rappresentava l’unica sua salvezza dalla morte per asfissia. Pasquale fece per alzarsi per salvare l’amico, ma Michele gli fece un gesto stizzito con la mano per farlo rimanere seduto. Inspirando rumorosamente, riuscì a dire: «Esco. Prendo dell’aria.». «Va bene.» mormorò Pasquale. Aveva la bocca spalancata e gli occhi sbarrati in una magistrale imitazione della trota salmonata. Michele si alzò di scatto facendo strisciare la sedia sul pavimento e raccogliendo a piene mani l’attenzione di tutti gli altri i presenti. Barcollando come un ubriaco e tossendo come un ossesso raggiunse l’uscita e in pochi secondi fu fuori. Si appoggiò contro il muro del palazzo cercando di incamerare abbastanza aria per sopravvivere. Tossì e tossì ancora, tossì talmente forte che venne scosso da violenti conati di vomito e da crampi nel costato. E improvvisamente il prurito svanì, lasciandolo libero di tornare a respirare. La sua vista era annebbiata da un velo spesso di lacrime e sentiva la pelle del viso bruciare. La gola era in fiamme e gli addominali gli dolevano in alto e di lato. Ma era riuscito a superare quella violenta crisi di tosse. Ed era pure riuscito a sfuggire al fastidioso flusso di coscienza di Pasquale. Sospirò al pensiero di dover rientrare a sorbirsi quella voce fastidiosa, quei discorsi assurdi e quel tè schifoso. Non ne aveva nessuna voglia. Si schiarì la gola per eliminare il dolore residuo e si avviò verso casa sorridendo. Attraversando la strada, la sua mente produsse un pensiero che lo lasciò turbato nei giorni seguenti. La sua era una storia già letta. Lo scrittore che vive all’ombra del fenomeno editoriale che invece riesce a pubblicare e a piacere, che ha successo e ha contratti invidiabili. Cazzo, quante volte si è già ripetuta questa circostanza, e quanti scrittori a loro volta ne hanno scritto. Il suo conflitto interiore si riduceva ad una macchietta, ad un canovaccio scritto e riscritto dozzine di volte. Un canovaccio a cui non valeva nemmeno la pena dare un titolo. Ma cosa significava, questo? Il suo odio assumeva più o meno valore, a questo punto? Le cose che provava erano sentimenti comuni, che molte altre persone avevano già sperimentato e di cui illustri artisti avevano già parlato. La sua nemesi poteva diventare arte. Mentre cercava le chiavi nelle tasche del trench per aprire la porta di casa sentì all’interno il telefono squillare furiosamente. La ricerca divenne spasmodica e forsennata, sotto la pressione della paura di perdere la chiamata; riuscì finalmente a trovare il mazzo di chiavi, infilò la chiave nella toppa, girò la chiave e si lanciò come un pazzo verso il suo studio. Rispose al telefono senza nemmeno leggere il nome di chi stava chiamando. «Pronto?». Cercò in tutti i modi di nascondere l’affanno che gli spezzava la voce. «Signor Umetti?». La voce di Nadia sembrava provenire da molto lontano: probabilmente era nel suo studio con il vivavoce. «Ciao, Nadia. Ciao.» «Mi perdoni se l’ho fatta aspettare. Adesso sono tutta per lei.» «Non voglio sottrarti troppo tempo.» «Non si preoccupi. Mi diceva, del suo libro?» «Sì, ecco, ho finito l’ultimo romanzo.» «L’ha già trovato un titolo?». La donna rise sottovoce. «Ecco, sì, ecco, io ci ho pensato, ma non riesco a trovarne uno adeguato.» «Ci penserò io oppure lo vediamo assieme in fase di editing.» «Grazie, Nadia.» «Signor Umetti, io in realtà vorrei farle una proposta.» «Dimmi pure.» «I suoi libri sono ottimi romanzi, certo, ma in questo momento il mercato è interessato ad un altro tipo di prodotto. Non so se mi spiego.» «A cosa si riferisce?» «Io so che lei è amico intimo del dottor Dandi. E’ corretto?» «Io. Sì. Amici intimi. Conosco i suoi figli.» «Ecco. Noi riteniamo che il pubblico possa essere interessato ad una biografia del dottor Dandi. Pensa di essere in grado di scrivere un libro del genere?» Fanculo alla nemesi artistica.

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