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La mezza età

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 29 apr 2017
  • Tempo di lettura: 10 min

Quando ebbe terminato, il suo sguardo si incupì e divenne tagliente. «Ed è per questi motivi che non possiamo sposarci.» concluse lei con un cenno secco del capo. Afferrò per le ascelle il bimbo pelato che gattonava nella cucina e lo strinse al petto, appoggiandolo sul bacino. Valerio accarezzò i suoi contorni con lo sguardo. Quella figura ignota e familiare che si stava nascondendo dietro ad un marmocchio lo aveva appena respinto. «Non ci sono ripensamenti.» mormorò lui. La sua voce sfrigolava di odio e risentimento verso lo stronzetto: lo guardava strizzando le palpebre e arricciando le labbra per mostrare i denti. La donna della sua vita, la dea che aveva sempre desiderato, sarebbe rimasta solo un’utopia a causa di una minuscola fabbrica di merda liquida. Alessia scosse la testa, e i capelli bruni legati in una coda alta oscillarono in modo ipnotico. Valerio scrutò le zampe di gallina ai lati degli occhi chiari e il velo di ombra della pelle cadente sul collo. Strinse con forza la tazza tiepida contenente il fondo del caffè americano che non aveva voglia di finire. Quando Tobia iniziò a scalciare e ad agitare i pugni, la mamma lo posò per terra e si sforzò di dimenticare che lui esistesse; si versò altro caffè annacquato e si abbandonò sullo sgabello della cucina. «Nessun ripensamento.» ripeté Valerio, nella speranza di risultare lapidario. Voleva dare l’impressione di essere spietato, di essere stato lui a volere quel rifiuto. Alessia rimase in silenzio, cercando le parola adatte sul fondo della tazza che aveva appena svuotato. Tobia richiese a gran voce l’attenzione della madre, la quale accorse con imbarazzata solerzia. Valerio approfittò della temporanea assenza della padrona di casa per osservare la cucina di una madre single: i piatti di ceramica bianca impilati con cura nella vetrinetta, i bicchieri sopravvissuti di differenti collezioni di fianco a bicchieri di nutella ripuliti, scatole di cereali e un cesto di banane annerite. Attorno alla plafoniera si avvolgevano ampi arabeschi di ragnatele nere e bianche. Alessia tornò dopo pochi minuti con la camicia dipinta da un rivolo di vomito: corse al lavandino, afferrò una spugnetta umida e iniziò a sfregarsi la tetta. «Scusami.» mormorò indaffarata, forse rivolgendosi a se stessa. «Scusami.» Valerio voleva tornare sull’argomento matrimonio, ma sembrava che Alessia fosse completamente refrattaria. Avrebbe potuto ribadire per la terza volta che non ci sarebbero dovuti essere ripensamenti, ma temeva di apparire monotono: sapeva di dover trovare una frase ad effetto con cui catturare l’attenzione della donna una volta per tutte. «Potresti versarmi altro caffè?» disse con un filo di voce tremante. Si sentì abbastanza soddisfatto dell’arbitrarietà della frase che aveva pronunciato, e quando vide Alessia intontita e confusa inghiottì un sorriso. «E’ finito.» «Ah.» Alessia iniziò a lavare i piatti che aveva lasciato a pranzo; i suoi movimenti lenti e annoiati erano intervallati da sospiri ad alta voce e dagli schiocchi dello scontro tra stoviglie. Tobia era in salotto e stava urlando contro una macchinina finita sotto al divano mentre agitava i pugni al cielo. Oltre a questi rumori, l’aria era silenziosa. Dopo una decina di minuti durati quanto dieci ore, la donna chiuse il rubinetto e mise a scolare i piatti. Si girò verso Valerio, si appoggiò contro il bancone e si mise a braccia conserte. I suoi occhi erano severi e i muscoli attorno al naso lievemente contratti. «Cosa vuoi ancora?» disse con un tono di voce sorprendentemente esausto. Valerio si irrigidì sulla sedia e sentì una fitta acuta nella zona lombare. Voleva sposarla, ecco cosa. Doveva stare molto attento a cosa dire senza fare passi falsi: doveva essere discreto e allusivo. L’amore è strategia. «Voglio sposarti.». Forse avrebbe potuto essere più allusivo di così. Alessia restò in silenzio per lunghi e strazianti istanti, con gli occhi socchiusi e le labbra scure spinte in fuori. Prese fiato. «Tesoro, forse tu hai bisogno di rimettere le cose al loro posto. Come dire, in prospettiva con il resto.» «Cosa ne sai tu, del resto.» «Appunto, Valerio. Sto parlando proprio di questo: io non so niente di te.» «Sì, tu mi conosci. Mi conosci meglio di chiunque altro.» «Non dire idiozie: ti ho conosciuto solo tre giorni fa». Valerio iniziò a sudare sotto le ascelle.

Anche tre giorni prima, quando si erano conosciuti, Valerio stava sudando sotto le ascelle. Erano sulla banchina della metropolitana e, assieme a decine di persone, aspettavano un treno le cui ruote si erano impigliate nei resti spappolati di un suicida. Faceva un caldo soffocante, uno di quelli che stritolano la gola e fanno sudare le ascelle. Avevano iniziato con qualche parola innervosita scambiata senza pensarci, qualche battuta per stemperare l’angoscia del ritardo; quando, quindici minuti dopo, una voce metallica aveva annunciato la navetta sostitutiva fino a Loreto, Valerio aveva proposto alla donna un rapido caffè aspettando che la folla defluisse così da poter prendere un bus che non fosse simile ad un carro bestiame. Si recarono in un bar pulito ma buio e con l’arredo risalente a quarant’anni prima: lui ordinò un caffè lungo e lei un ginseng al caramello in tazza grande. Il barista arricciò le labbra e disse che non solo non avevano il caramello ma nemmeno il ginseng. Però le tazze grandi le avevano, quelle sì. Lei allora optò per un rassegnato marocchino. Si sedettero ad un tavolino in vetrina, nel tentativo di raccogliere per quanto possibile i raggi di sole che penetravano dalle tende esterne del locale. «Che lavoro fai?» domandò Valerio, nel tentativo di prendere il controllo della conversazione. Lei emise un suono stridulo che doveva essere una risata, forse imbarazzata. «Non sai nemmeno come mi chiamo.». Lui sollevò le spalle e le scrollò: «Quanto è importante un nome?» chiese con fare retorico. Dentro al petto iniziò ad avvertire il germe di un disagio che non riuscì a spiegarsi: pensò che doveva essere colpa della scampata figuraccia con il nome. «E’ Alessia.» «Eh?» «Mi chiamo Alessia.» «Ah.» Arrivò il barista portando il loro ordine. Appoggiò sul tavolo due tazzine uguali, una contenente un caffè espresso e l’altra un caffè macchiato con misera una spolverata di cacao in polvere. «Grazie.» disse la donna, senza sorridere e guardando fuori dalla vetrina. Valerio aprì la bocca e vi gettò l’interno contenuto bollente e amaro della tazzina; deglutì rumorosamente e ruttò a bocca chiusa. Alessia prese una bustina di zucchero di canna, versò metà del contenuto nel caffè e attese pazientemente che lo zucchero affondasse nella schiuma. Poi iniziò a far roteare la punta del cucchiaino nel liquido. «Tu che lavoro fai?» chiese lei, ipnotizzata dal suo stesso movimento. Lui aggrottò le sopracciglia. «Sono un giornalista.» disse con la bocca semichiusa. «Per che testata?» trillò la voce di lei. «Sono freelance.» «Certo.» Quando Alessia ebbe finito di mescolare, posò il cucchiaino sulla tovaglia e attese che la schiuma si smontasse. «Io faccio il perito assicurativo.». Lui non disse nulla, perso nei suoi pensieri: tentava di fare mente locale su quali giornali e riviste non aveva ancora contattato della sua lista. Aveva di recente scritto uno scoop su una casa di riposo, ed era materiale talmente bollente che nessun direttore era stato disposto ad esporsi pubblicandolo. In mattinata avrebbe scritto ad un settimanale della provincia di Bergamo e ad una rivista mensile di gossip. «Hai sentito quello che ho detto?» ridacchiò lei, riportandolo alla realtà. «No.» «Ho detto che sarà ora di andare. In piazza non c’è più nessuno.»

Era in un’altra piazza deserta quando, dieci giorni prima, era uscito dal palazzo della società per cui aveva lavorato per quindici anni. Si era voltato sugli scalini di pietra scura, aveva osservato le linee austere dell’edificio e aveva sputato per terra un grumo di catarro. Quello scaracchio era l’unica cosa che si meritavano per averlo sfruttato, umiliato, relegato dietro ad una scrivania di compensato, riempito di caffè scadente e panini freddi. Senza troppi complimenti, si era alzato dalla sedia, era andato nell’ufficio del suo superiore, aveva fatto il suo ingresso teatrale spalancando la porta senza nemmeno bussare, e aveva annunciato con la sua migliore voce baritonale che rassegnava le dimissioni con effetto immediato. Uscendo dall’ufficio aveva sbattuto la porta; mentre tornava alla sua scrivania per raccogliere la scatola già pronta con i suoi effetti personali, aveva gongolato serrando le labbra al pensiero dell’espressione attonita e incredula che sicuramente si era disegnata sul volto di Viviana. Zampettando giù per le scale di servizio e stringendo tra le braccia lo scatolone quasi vuoto, si era sentito vivo, finalmente libero dalle costrizioni esterne che lo avevano portato a vivere nell’angoscia e nella sofferenza. Ora, guardando la prigione che lo aveva tenuto rinchiuso, iniziò ad avvertire nello stomaco un ribollire furioso di risentimento e allo stesso tempo di gioia incontrollata per la libertà appena ottenuta. Affondò le dita tremanti nelle tasche strette dei jeans ed estrasse il cellulare: digitò uno e fece partire la chiamata. Dopo quattro squilli rispose sua moglie. «Sei ancora in pausa?» disse la voce roca della donna. «No. Sì.» «Che cosa significa? Sì o no?» «Mi sono licenziato.» Silenzio. Interminabile silenzio. «Non ho capito.» «Sì. Mi sono licenziato.». Che sensazione piacevole dirlo ad alta voce, dirlo a qualcuno. Per un breve istante si sentì un eroe di ritorno da una missione vittoriosa. «Tu hai fatto cosa?» urlò dall’altro capo del telefono Rachele come una pazza isterica. Valerio si guardò la punta delle scarpe, in cerca di un alone di sporco o qualche macchia. Seppe di aver perso. Rimase in silenzio mentre Rachele gridava che era uno squilibrato, un padre di merda e un marito ancora peggiore, che non ne poteva più delle sue stronzate. Valerio ascoltava e faticava a trattenere le lacrime che, come lui, volevano fuggire dalla loro prigione: nemmeno sua moglie, quella che avrebbe dovuto essere la sua compagna di vita, era in grado di supportarlo. Lo odiava, e lui odiava lei. E, ogni tanto, odiava anche suo figlio in quanto prodotto del loro odio. Era riuscito a scappare dall’oppressione del suo ufficio, ed ecco che si ritrovava nell’oppressione della sua famiglia da cui non avrebbe avuto la stessa facilità a fuggire. Approfittando di una pausa di Rachele per prendere fiato, Valerio disse la sua. «Sai che c’è? Vaffanculo te, i tuoi quadri, tuo figlio, i tuoi amici, casa tua, vaffanculo tutto.». La sua voce era salda, forse troppo acuta, ma comunque si sentì fiero di sé per aver sfoggiato il tono di un uomo stanco e seccato, ancora in grado di controllarsi. Dentro, Valerio si sentiva lacerato e sull’orlo di un precipizio emotivo. Rachele terminò la telefonata senza aggiungere altro.

Due mesi prima, la sera del suo compleanno, Valerio aveva concluso una telefonata in un modo simile. Era in chiamata con un cugino che non sentiva da molto tempo, e con cui parlava solo nei giorni dei rispettivi compleanni: solitamente, la telefonata durava non più di una decina di minuti, tempo che i due utilizzavano per fare sfoggio i loro obiettivi raggiunti. Quelli di cui parlava Valerio erano per lo più inventati. Quella mattina, Renato era in forma smagliante: illustrava ormai da svariarti minuti la sua nuova Audi, facendosi largo nel silenzio attonito del cugino. «Ho deciso di viziarmi, perché credo proprio di meritarmelo. Quel volante in pelle riscaldato è davvero una meraviglia.». Valerio guardava Rachele armeggiare con le stoviglie sporche della cena impilate nel lavandino: stava cercando di fare spazio al tagliere e gli attrezzi che aveva utilizzato per cucinare. «E ti ho già parlato del motore? Quella bellezza ha una scuderia intera sotto al cofano.». Paolo era in salotto, sdraiato sul divano con il telefono a tre centimetri dal naso, intento a perdere una montagna di tempo in sciocchezze virtuali. La luce blu dello schermo gli faceva splendere gli occhi. «Ragazzi, sto servendo la panna cotta. Venite qui.» urlò Rachele dal fondo del frigorifero. Estrasse un vassoio contenente le cinque scodelle del dolce monoporzionato. «Devo andare.» mormorò Valerio con voce atona al microfono del telefono, e premette il pulsante rosso di fine chiamata. Adagiò il cellulare sul comodino all’ingresso e si sedette a tavola; si pulì la bocca asciutta con il suo tovagliolo immacolato. Paolo arrivò qualche minuto dopo, con il telefono stretto in mano e l’indice sul pulsante di sblocco. Si sedette sulla sua sedia e si allungò per afferrare il pacchetto di sigarette di Rachele rimasto sul tavolo dopo la sua usuale fumata dopo l’insalata. «Paolo, ti prego.» disse Valerio, sollevando la mano nel tentativo di fermare il figlio. «Papà, non rompere, ormai non è mica un segreto che fumo.» «Rachele, di’ qualcosa.» «E’ quasi pronta la panna cotta, ragazzi.». Paolo prese il pacchetto, estrasse una sigaretta e la accese con un piccolo accendino che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni. Iniziò ad respirare profonde boccate e, sollevando il sopracciglio in direzione del padre, gli sputò in faccia il fumo. «Paolo, vai in balcone se devi fumare.» lo rimproverò Rachele entrando in sala da pranzo con il vassoio dei dolci: sulle panne cotte aveva versato una marmellata liquida di frutti rossi. Paolo si alzò di scatto, spingendo indietro la sedia che strisciò rumorosamente sul parquet. «Bene.» disse seccato, mentre metteva il codice sullo schermo del cellulare e si allontanava verso la portafinestra. «Hai visto che ti ho fatto la panna cotta?» «Vedo.» «La tua preferita.». Non era affatto la sua preferita; non lo era mai stata. Lui preferiva di gran lunga i dolci da forno, come i muffin: ecco, i muffin erano i suoi preferiti. Un giorno, tanti anni prima, quando ancora non erano sposati ed erano solo due ragazzini stupidi e persi, erano usciti a cena in pizzeria: il giovane Valerio, drogato dai fumi del primo innamoramento, si sentiva in estasi per ogni cosa su cui posasse gli occhi. Quando, alla fine del pasto, il cameriere aveva portato la loro panna cotta da dividere, il suo cuore era talmente pieno di gioia che era improvvisamente prorotto in una falsa confessione riguardo il suo amore spassionato per la panna cotta. Da allora, Rachele non l’aveva più dimenticato e lui non aveva più avuto il coraggio di dirle che era stata una palla innocua dettata dal momento. Perciò Valerio era costretto a inghiottire badilate di panna cotta ogni volta che si ritrovavano a cena per le occasioni speciali. In silenzio, entrambi affondarono la punta del cucchiaio nella consistenza viscida del dolce. Fuori sul balcone, Paolo stava parlando con la fidanzata: si sentiva la sua voce vibrante e giovane, le risate calde e i silenzi dei sussurri. «Ti capita mai di pensare che non avresti voluto niente di quello che hai?» proruppe Valerio con un sussurro tremante, osservando la marmellata colare lungo il bordo liscio della panna cotta. «In che senso?» domandò Rachele, infilandosi in bocca il cucchiaio pieno di gelatina. Valerio la guardò per qualche secondo, senza riuscire a riconoscere nessuno dei sentimenti che gli annebbiavano la mente. «Io – no, niente.» Paolo rientrò dal balcone ancora con il telefono premuto contro l’orecchio, e senza dire nulla corse in camera sua sbattendo la porta. Valerio guardò la panna cotta del figlio rimasta intonsa e sospirò. «Non ne voglio più, grazie.» mormorò, lanciando il cucchiaio sul piattino di ceramica; si alzò lanciando indietro la sedia e corse in camera sbattendo la porta. Rachele rimase seduta a tavola a finire il suo dolce.

 
 
 

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