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Il meccanico

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 26 mag 2017
  • Tempo di lettura: 8 min

Aspira una poderosa boccata dal sigaro. L’ultima, si dice per l’ultima volta. Mentre preme svogliatamente la brace del sigaro nel posacenere e soffia fuori dalle labbra il fumo bianco, osserva la linea del cornicione del palazzo di fronte illuminato dal sole. Le curve e gli angoli del marmo chiaro, i seni scoperti delle statue femminili. Ridere. Il problema odierno era rappresentato dalla necessità della risata connaturata all’essere umano. Il cellulare nella tasca dei pantaloni inizia a vibrare senza emettere suono: lo estrae e vede che è sua figlia che gli sta telefonando. Non è urgente, non lo è mai: si tratta sempre di questioni di soldi, di impegni, di nipoti. Preme il tasto di spegnimento e la vibrazione si interrompe. Tutti sperimentiamo l’esigenza della risata, in circostanze estremamente differenti tra loro: da un bambino che scivola e picchia il naso a una barzelletta sui maiali. Cosa accomuna tutte queste forme di ilarità? Perché situazioni così eterogenee causano sempre la stessa reazione, quasi che fosse un automatismo psichico? E’ necessario trovare ciò che accomuna tutte queste circostanze così diverse. Si ride assieme ad altri: nel fenomeno comico ci deve essere la fonte che genera la risata e ci deve essere almeno una persona che ride. Questi sono decisamente gli elementi minimi. Qualcuno bussa alla porta, interrompendo il suo flusso mentale. «Avanti.» dice con la sua voce più scocciata. Ilenia apre piano la porta, fa capolino con la testa senza entrare nell’ufficio. «Professore?» mormora con un filo di voce tremante. «Ti avevo avvertito che stavo lavorando?» «Sì, professore.» «E allora cosa c’è di così urgente?» «Ha chiamato sua figlia. Chiede di essere ricontattata il prima possibile.» «In questo momento sono impegnato. Quando richiamerà, dille di lasciare un messaggio.» «Va bene, professore.». Ilenia sparisce in fretta lasciando che la porta si chiuda da sola. Quindi la risata è un fenomeno sociale, sempre e comunque. Esistono casi in cui non è così? A volte ci capita di pensare qualcosa di divertente e di riderne da soli: credo che si tratti di un caso in cui la fonte e chi ride coincidono. Quindi ridere è un fenomeno sociale. Ora, prendiamo due casi molto diversi che suscitano entrambi la risata: ad esempio, un bambino che scivola e una barzelletta basata su un gioco di parole. Noto il fatto che il racconto del bambino che scivola non è divertente quanto assistere direttamente alla scena: quindi in questa circostanza il vedere, il prendere parte di persona alla scena comica diventa fondamentale. Sente il telefono della scrivania di Ilenia suonare e spera vivamente che non sia di nuovo Chiara. Che donna testarda: è stato lui ad insegnarle a vivere così, solo secondo le sue regole. E’ fiero di lei ogni giorno della sua vita ed è fiero anche della figlia che lei sta crescendo. Ma ci sono dei momenti in cui lui non riesce a sopportare l’incapacità di Chiara di arrendersi di fronte all’evidenza. Sta divagando, deve fare uno sforzo di concentrazione e focalizzarsi sul lavoro. Quindi, il bambino che scivola. E’ una scena divertente perché non ci siamo abituati; o troviamo divertenti anche cose che conosciamo per abitudine? Sembra di no: una scena ripetuta smette di fare ridere. Mi sembra che anche la sorpresa sia un elemento fondamentale per la riuscita della comicità. Ilenia sta gracchiando al telefono, verso che produce quando vorrebbe urlare ma è obbligata a tenere a freno la rabbia. Si alza, fa il giro della scrivania e apre la porta: vede la donna obesa in piedi, che con un braccio grassoccio si puntella contro la sua scrivania e con l’altra mano stringe con forza la cornetta del telefono. Non appena lei si accorge della sua presenza, sbianca e si ammutolisce; la sua fronte è imperlata dal sudore dovuto allo sforzo. «Cosa sta succedendo?» «Professore, è sua figlia. Continua ad insistere che le deve parlare. Stavo cercando di spiegarle che lei-» «Dammi qua.» Le strappa di mano la cornetta e avverte sotto la pelle della mano l’umido del sudore della donna. Ilenia nel frattempo si è già allontanata verso il bagno. «Cosa c’è?» dice nel microfono del telefono con una voce stanca e seccata. «Papà, cazzo.» «Chiara, ti ho già detto mille volte di non usare questo linguaggio.» «Per quale motivo non rispondi al telefono? Ti ho chiamato cinque volte.» «Sto lavorando.» «Non me ne frega niente. Tu avevi preso un impegno con tua nipote e avevi promesso.» Cazzo. La recita di Matilde. Cazzo. «Papà?» «Sì, sì, sì, Chiara.» Non sa bene cosa dire per giustificarsi, per scrollarsi di dosso il senso di colpa. Le sue labbra balbettano qualcosa ma non riesce nemmeno a produrre un suono. «Vieni o no?» «Io…devo lavorare.» «Bene.» Resta in piedi, con la cornetta premuta contro l’orecchio, anche dopo che Chiara gli ha sbattuto il telefono in faccia. Potrebbe correre fuori, prendere la macchina e raggiungere il teatro; oppure può restare in ufficio a lavorare, nascondendosi nei suoi pensieri fino a che il senso di colpa non sarà scemato abbastanza da telefonare a Matilde e scusarsi per aver infranto la promessa. «Ilenia?» urla al silenzio dell’ufficio. Stringe ancora la cornetta in mano. «Sì, professore?». La voce della donna sembra rotta dalla paura. «Perché in agenda non c’era il saggio di mia nipote?». Dal bagno in cui la segretaria è ancora rinchiusa proviene un agghiacciante silenzio. «Ilenia?» «Professore, ieri mattina lei mi ha chiesto di annullare tutti gli impegni per oggi. E questo ho fatto.» Sente l’impulso di insultare quella povera donna che ha l’unica colpa di aver fatto il suo lavoro. Stringe i pugni e socchiude gli occhi; apre la bocca ed emette un alito d’aria muta, per poi serrare i denti e mordersi la lingua. Gira i tacchi e a passo spedito torna nel suo ufficio. Mentre Ilenia borbotta qualche parola che pare essere di scusa, lui chiude la porta e appoggia la spalla contro il legno scuro. Preme la punta del pollice e dell’indice contro i lati del naso, vicino agli occhi. Tutto questo non fa ridere. Lo potrebbe mai fare? Forse visto dal di fuori, quando non c’è coinvolgimento emotivo. Forse se qualcuno di esterno alla vicenda vedesse la situazione in questo momento, potesse vedere la mia faccia, scoppierebbe a ridere. Questo è un altro elemento necessario all’insorgere del comico: l’assenza di coinvolgimento emotivo. Il bambino che cade e picchia il naso fa ridere solo se quel bambino non è tuo figlio. Solleva la manica e guarda l’ora sull’orologio da polso. «A che ora era la recita?» urla a Ilenia con la sua voce cavernosa per superare il muro e la porta di legno. Dopo qualche secondo di silenzio la donna annuncia che lo spettacolo è iniziato dieci minuti fa. Lui sibila un’imprecazione tra i denti e guarda ancora il quadrante dell’orologio. Sa che non può farcela, non potrà mai arrivare in tempo per vedere nemmeno un minuto della recita. Magari se in macchina corre come un dannato può riuscire a vedere gli ultimi minuti. Se questo fosse un film, sarebbe una scena comica o drammatica? Credo dipenda dalle circostanze a contorno, le inquadrature, la musica, i filtri, il ritmo dell’azione. Con una musica drammatica, un ritmo più lento, l’intento è creare il patos necessario a instaurare un coinvolgimento tra la scena e lo spettatore. Il comico si instaura quando non c’è coinvolgimento, quando lo spettatore si pone con una sorta di distacco partecipato. Guarda di nuovo l’ora e i minuti passano, scivolano come la sabbia tra le dita divaricate. Non riesce a smettere di perdere tempo con i suoi pensieri. Con un moto di stizza, afferra il soprabito appeso e se lo getta oltre la spalla; esce come una furia dall’ufficio spalancando la porta con un ampio gesto teatrale. Ilenia è seduta alla sua scrivania, facendo saltellare le sue dita grassocce da un tasto all’altro del computer: quando lo vede uscire, solleva il capo e sgrana gli occhi. «Professore?» «Vado alla recita di Matilde. Non ci sono per nessuno fino a domani.» Esce dall’appartamento senza chiudere la porta e chiama l’ascensore. Raccogliendo le idee, gli elementi fondamentali sono la socialità, la novità e il distacco partecipato. Se ne esistono altri, mi verranno in mente lungo il cammino mentale per arrivare alla conclusione. Torniamo alla caduta del bambino: abbiamo definito che si tratta di un evento insolito. Ma perché dovrebbe essere insolito? In generale, le persone non cadono. Arriva l’ascensore, e durante la discesa osserva il suo riflesso nello specchio. Guarda i suoi capelli ormai completamente bianchi, le rughe profonde e le labbra secche. L’unica cosa rimasta uguale in tutti questi anni sono i suoi occhi: la luce che vede dentro non è mai cambiata. Quella rigidità che nasconde una tenera morbidezza. Estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni: “sto arrivando” scrive in un rapido messaggio alla figlia. Tieni il telefono stretto in mano mentre arriva al piano del parcheggio e si dirige verso la sua automobile. Esatto, le persone non cadono. Quindi cosa c’è di divertente quando invece lo fanno? Si tratta di una situazione inusuale, a cui non siamo abituati. Se vediamo un bambino che scende da uno scivolo, ci aspetteremmo di vederlo arrivare fino in fondo seduto composto, alzarsi e ricominciare il giro. Quando invece, arrivato in fondo, si capotta e cade di faccia, ridiamo. Il bambino in questione non si comporta come ci saremmo aspettati. Sto girando intorno agli stessi pensieri: forse mi sono impantanato. Fermo, imbottigliato nel traffico della circonvallazione, guarda il suo riflesso nello specchietto retrovisore e si domanda quando abbia iniziato ad invecchiare. Un giorno se n’è semplicemente accorto e a quel punto era troppo tardi per poter correre ai ripari. Ha preso atto delle rughe, dei fili bianchi tra i capelli, le prime macchie sulle mani. Questo è successo tanto tempo fa. Da allora ha praticamente smesso di guardarsi allo specchio, avendo perso ogni interesse nel suo aspetto esteriore. Il bambino cade quando non ce lo si aspetterebbe. Chiunque cada fa ridere perché si comporta in modo inaspettato. Tutti ci aspettiamo che di fronte al pericolo della caduta, il malcapitato riesca ad evitarla con grazia. Ci aspettiamo una reazione flessibile. E’ l’assenza della reazione flessibile che ci fa ridere: è quando vediamo la rigidità meccanica che ridiamo. Rallentando entra nel viale del teatro e osserva le macchine parcheggiate alla ricerca di un posto dove lasciare l’auto. Guarda l’ora sul suo orologio da polso e sbuffa, sperando che lo spettacolo di Matilde non sia già finito, e poter vederne almeno due minuti. Guardando distrattamente l’ingresso del teatro avvicinandosi in macchina, vede un capannello di persone ferme a chiacchierare sui gradini all’ingresso. Sono mamme e papà che tengono per mano i loro figli, tutti sorridenti e con un atteggiamento del corpo che lascia trasparire un profondo senso di orgoglio. Così capisce che lo spettacolo è già finito, e lui non ha mantenuto la promessa. Mentre rallenta tanto da quasi fermarsi, inizia a vagliare una serie di giustificazioni improbabili da sottoporre alla nipote nella speranza di farsi perdonare. Perso tra i suoi innumerevoli pensieri, per poco non si accorge quando Chiara attraversa la strada sulle strisce poco più avanti, tenendo Matilde per mano. Sono entrambe meravigliose, splendide nei loro sorrisi gioiosi e fieri, gli occhi luminosi e i capelli biondi. Stanno parlando e ridendo: Chiara si china verso la bambina quando le parla, i capelli le sfuggono da dietro l’orecchio e lei deve rimetterli a posto. Ridono insieme. Ridono. Chissà per quale rigidità meccanica: avranno visto qualcuno cadere, o forse qualcuno ha raccontato loro una freddura? Ridono insieme, rispettando il canone della socialità; in più sono sole, e quindi non c’era partecipazione emotiva nella scena comica a cui hanno sicuramente assistito, altrimenti sarebbero rimaste ad assistere il malcapitato. Una macchina dietro di lui strombazza per lamentarsi della sua lentezza eccessiva, e questo lo riporta alla realtà. Fa inversione e decide di tornare in uffici

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