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Il pungitopo

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 3 mag 2017
  • Tempo di lettura: 8 min

Si sporse oltre la balaustra e vomitò la cena, assicurandosi di tenere il calice dritto per non rovesciarne il contenuto. Con il mignolo si pulì gli angoli della bocca dai resti del contenuto del suo stomaco e si rassettò le pieghe del vestito. Infine poggiò il calice di vino sulla balaustra e si sedette sul marmo di cui avvertì la temperatura gelida da sotto la stoffa dell’abito. Per lunghi minuti si guardò intorno, fissò la notte e gli alberi neri. Dietro il vetro della finestra chiusa gli altri invitati bevevano il costoso vino dai calici costosi e ridevano mettendo in bella mostra i denti lucidi incrostati di brandelli di aragosta e filetto. I gioielli delle donne riflettevano la luce delle lampadine del grande lampadari di cristallo e delle candele sui tavoli e i caminetti. Le acconciature elaborate erano ormai sfatte e le ciocche disordinate cadevano sulle spalle. Qualcuno aveva qualche macchia sui vestiti. Voltò leggermente la testa e sospirando si buttò di sotto. Nessuno udì lo schianto dei rami che si spezzavano e il tonfo a terra, e il suo cadavere ghiacciato e livido fu ritrovato solo la mattina seguente da Hugo, il giardiniere cileno al servizio della famiglia da oltre dieci anni. Hugo era abituato alle stranezze: nella sua esperienza lavorativa in casa Osniego aveva trovato nel vasto giardino ogni genere di assurdità. Scarpe spaiate, calzini e biancheria intima bagnata fradicia, pistole e fucili, rotoli di carta igienica, pesci crudi morsicati in diversi punti, una gamba di legno e un occhio di vetro, una cucciolata di gattini senza la madre. Pagine strappate di un libro scritto in cirillico. Non si sarebbe certo aspettato un cadavere. L’aveva trovata nel cespuglio di pungitopo sotto il balcone della sala ricevimenti, graffiata e trafitta dalle punte vegetali delle foglie. Ovviamente il cespuglio era stato abbattuto dalla caduta e avrebbe dovuto essere estirpato e sostituito al più presto: una grande seccatura, senza contare la questione di dover chiamare la polizia per la rimozione del corpo. Hugo la osservò per qualche secondo, stringendo l’annaffiatoio verde nella mano. Ricordava di averla vista qualche volta prendere il the con la signora, ricordava le sue dita lunghe afferrare con delicatezza la tartelletta alla frutta e portarsela alla bocca, masticare, leccarsi le labbra, deglutire. L’aveva osservata da lontano, qualche volta. Non conosceva il suo nome, però. Un rivolo di sangue scuro gli era colato dalla bocca e da una narice, e gli occhi erano socchiusi. Riusciva ad intravedere il bordo inferiore degli iridi chiari della donna che era morta con gli occhi riversi verso l’alto. Aveva assunto con la caduta una posizione delicata, come di una modella per un quadro di nudo: le caviglie si incrociavano, un braccio era disteso lungo il fianco e l’altro le cingeva il collo. Il suo petto non si muoveva. C’era un cadavere nel suo giardino. Il cadavere di un morto. Un morto con il suo cadavere. Non doveva toccare niente, altrimenti la polizia avrebbe trovato le sue impronte da cileno e lo avrebbe rimandato in Cile, che lui fosse o meno l’assassino della donna. Anzi, se lui fosse stato l’assassino sarebbe finito in una prigione cilena, assieme ai prigionieri cileni. Non sarebbe sopravvissuto mezza giornata in una prigione cilena. Un’ora d’aria al giorno, in fila per il pasto insapore, con i compagni di cella scarti della società. Lui era un uomo rispettabile con un lavoro rispettabile, che si era fatto strada a gentili gomitate nella giungla della vita spietata del lavoro a nero e dell’emigrazione. Non poteva sopportare l’idea di perdere tutto per un cadavere nel suo giardino. Tuttavia su quella donna non c’erano le sue impronte: come avrebbero potuto incriminarlo se su quella donna non c’erano le sue impronte? Lui era sono il giardiniere che aveva ritrovato il cadavere, che sarebbe stato sommerso dalle domande subdole degli agenti sospettosi. Sarebbe diventato in un istante il primo sospettato. Lui di telefilm polizieschi ne aveva visti a decine, nel tempo libero della domenica: sapeva come andavano queste cose, quando c’era di mezzo un sudamericano. Primo sospettato senza nessuna prova che lo coinvolgesse. Come Josè in quel CSI. Solo che lui era messicano, e gli americani odiano i messicani. Il cadavere doveva sparire. In una buca sottoterra, in un lago, in un pozzo; non sarebbe stato mai più un suo problema. Il pungitopo. Sotto il pungitopo. Per sempre. Le mani di Hugo erano sudate e fredde mentre osservava il corpo della donna. Con la sua immaginazione guardò se stesso afferrare il cadavere per i piedi e trascinarlo poco distante per liberare lo spazio dove avrebbe scavato la fossa in cui sotterrarla. Tornare nel magazzino, posare l’annaffiatoio, recuperare una vanga e due sacchetti di plastica delle dimensioni più grandi. Infilare il cadavere della donna in uno dei sacchi perché non iniziasse a puzzare quando sarebbe iniziata la decomposizione, infilare il cadavere del pungitopo nell’altro per portarlo in discarica più tardi. Scavare la buca, gettarci il corpo avvolto nella plastica, ricoprirlo e piantare un nuovo arbusto. Sarebbe stato salvo. Si accorse che ancora non aveva ancora mosso un dito. I guanti. Doveva ricordarsi di mettere i guanti. In fondo lui era un giardiniere, era solito lavorare con i guanti e nessuno avrebbe sospettato di lui se fosse stato visto indossarli. Doveva sbrigarsi, lavorare più in fretta che poteva per nascondere il corpo prima che qualcuno lo vedesse. Doveva spostare il cadavere per liberare lo spazio per scavare, e poi doveva andare in magazzino. La sua mente ricreò la stessa sequenza di immagini che aveva appena realizzato e il suo corpo rimase immobile ad osservare. Era fermo impalato da oltre dieci minuti quando lasciò cadere l’annaffiatoio e senza rendersene davvero conto afferrò le caviglie della donna e iniziò a tirare. La pelle era velata da un sottile strato di collant beige che si era strappato in diversi punti con la caduta dal balcone; sentì comunque il gelo della morte sotto le sue dita. La trascinò per qualche passo: il bordo del suo abito si impigliato in una delle foglie del pungitopo e si sollevò mentre veniva spostata, rivelando prima il ginocchio e poi la coscia. Quando Hugo intravide il bordo di pizzo della biancheria scura, lasciò cadere le gambe per terra e indietreggiò di un paio di passi colto da un terrore stridente. Quella era una persona vera. La sua pelle era vera, i suoi capelli e le ossa. Il suo sangue non stava più scorrendo e nel suo cervello non c’era più elettricità, ma quel cadavere era una persona. Con una famiglia che la stava aspettando da qualche parte e che non avrebbe mai più ricevuto sue notizie, magari con un gatto che sarebbe morto di fame. Sotterrandola, lui stava impedendo ad un figlio, un marito e un padre di piangere la morte accidentale o volontaria di quella povera donna. Un altro pensiero gli fulminò la mente. L'aveva già toccata senza i guanti. Le sue impronte si trovavano sulle sue caviglie, sulla sua pelle e i suoi vestiti. Il terrore esplose dentro di lui e lo lasciò stordito e tremante. L'avrebbero preso, sì, l'avrebbero preso e lui non avrebbe nemmeno fatto in tempo a lasciare la città che già la polizia avrebbe tappezzato le autostrade con dozzine di posti di blocco solo per catturare lui, un povero cileno accusato ingiustamente di un brutale omicidio. E l’avrebbero mandato in una prigione molto peggiore di quelle cilene, una prigione da incubo in cui avrebbe dovuto vivere in mezzo metro quadro in completo isolamento, illuminato dalla luce artificiale e non più in grado di distinguere il giorno dalla notte. Quella era una persona vera, d’accordo: ma era morta e lui invece era vivo. A passo svelto, inspirando profondamente e cercando disperatamente di non dare nell'occhio, si avviò a testa bassa verso il magazzino. Si ripeteva senza sosta la lista del materiale di cui aveva bisogno: guanti, un sacco biodegradabile e uno di crudele plastica, la vanga. Sarebbe stato facile: doveva solo sostituire una pianta come aveva fatto migliaia di volte. Quanto mai poteva essere difficile scavare un buco e buttarci dentro un sacco? Deglutì. Tornò sulla scena del crimine indossando i guanti e stringendo la vanga in una mano e i sacchi nell’altra. L’annaffiatoio era ancora lì sull’erba, riverso su un fianco. Appoggiò la vanga e aprì il sacchetto per il cadavere: si sentì fiero della pensata di non utilizzarne uno biodegradabile e accennò un sorriso. Come infilarla nel sacco? Dai piedi, dalla testa, spingendola, tirandola, cercando di metterla in piedi? Se fosse stato un arbusto, ad esempio una camelia o il pungitopo, sarebbe partito infilando le fronde: ma nel caso di una persona, dai piedi o dalla testa? Decise di infilare innanzitutto i piedi. Srotolò il sacco con gesti lenti e mani tremanti, lo aprì e si accucciò di fronte ai piedi della donna. I guanti spessi impacciavano i suoi movimenti e la plastica del sacco si impigliava nelle punte consumate dei tacchi a spillo mentre cercava di infilarla; il sacco si squarciò in più punti. Forse non era abbastanza resistente per il giardinaggio e avrebbe dovuto cambiare marca al più presto. Imprecando tra i denti stretti e le labbra serrate sfilò il sacco e controllò i danni causati dalle scarpe della morta: si trattava di qualche buco e strappo non troppo grande che avrebbe potuto coprire con del nastro isolante. Capì che evidentemente era dalla testa che doveva infilare il cadavere: iniziò lentamente a far scorrere il sacco lungo il corpo della donna, sollevando di volta in volta il capo, le spalle, il bacino e le gambe. Affetto da una frenesia maniacale, corse nel capanno e recuperò il nastro isolante e due corde per chiudere entrambi i sacchetti; chiuse tutti i fori e gli strappi e si accorse che il sacco non era abbastanza lungo per chiudere completamente il cadavere e che dal lembo della plastica spuntavano le punte delle scarpe di vernice. Hugo avvertì un moto di irritazione e frustrazione per i continui intoppi ed errori, le sue mancanze che lo avrebbero portato a passare il resto della vita in galera. Con le mani tremanti non più per la paura, ma per la rabbia verso se stesso, legò la corda di canapa attorno i piedi della morta e li serrò con un doppio nodo; rabbrividendo si accorse di star aspettando di sentire i lamenti di dolore della donna per quanto aveva stretto la corda attorno alle caviglie. Invece lei era morta e non si sarebbe lamentata. Fece qualche passo indietro ed osservò il suo lugubre lavoro: dietro il telo di plastica, si indovinavano i contorni della fronte, del naso, delle labbra e del seno. Fissò a lungo il seno, aspettando di vederlo sollevarsi da sotto il sacco. Ma quella donna era morta: era davvero così facile dimenticarlo? E quella donna aveva dei figli, aveva un gatto che aspettava di essere nutrito, aveva delle piante che stavano seccando sul balcone. Aveva una madre, un padre, dei cugini. Quella donna era morta, e lui non riusciva a tenerlo a mente: la stava trattando come un arbusto secco, in fondo non troppo diverso da uno rigoglioso ben piantato nel terreno. Mentre faceva questi pensieri, utilizzò la vanga per dissotterrare le radici del pungitopo ed estirparlo, prese la pianta con i guanti e ne infilò le fronde appuntite nel sacco; legò la corda chiudendo il sacchetto attorno alle radici. Che differenza c’era ora tra i due cadaveri che aveva di fronte? Entrambi erano vivi fino alla notte precedente, e ora si trovavano legati per le estremità, chiusi dentro ad un sacco di plastica azzurra. Nessuno dei due avrebbe mai più respirato. Le sue gambe iniziarono a tremare e divennero liquide: Hugo crollò a terra in ginocchio, in lacrime. Si portò le mani avvolte nei guanti sporchi di terra al viso, riempiendosi la barba di sudiciume. Il suo egoismo stava per impedire ad una famiglia di sotterrare il corpo di una donna che avevano amato, stava per impedire le indagini per stabilire se si era davvero trattato di un suicidio oppure in caso contrario per catturare l’assassino. Tutto perché si era spaventato e aveva agito senza pensare. Rimase nel prato a piangere ancora a lungo, immaginando di alzarsi, andare i questura e riferire ai carabinieri cosa aveva appena fatto e cosa aveva in mente di fare. Visse mentalmente la scena innumerevoli volte, aggiungendo sempre nuovi dettagli fino a che la sequenza di azioni fu talmente realistica da sembrare un ricordo e non più una fantasia. Infine, guardò di nuovo il profilo del cadavere nel sacchetto e decise che era giunto il momento di alzarsi per davvero e andare incontro a delle responsabilità che avrebbe potuto evitare fin dall'inizio, se non avesse perso il controllo di una situazione in cui non aveva responsabilità.

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