La fermata del treno
- Giorgia Valt
- 2 apr 2017
- Tempo di lettura: 6 min
La osservava senza che lei lo guardasse. I suoi pensieri si perdevano tra le luci e i rumori del piccolo locale in cui erano capitati, galleggiavano sospesi sull’umidità e l’afa che li faceva boccheggiare tra un sorso di birra e l’altro. La guardava perché era bella. Quando era ubriaca le guance le si arrossavano come ciliegie mature e i suoi occhi diventavano lattiginosi. La sua lingua corta guizzava e faceva capolino tra i denti, tra le labbra distese, che fino a poche ore prima erano dipinte di quello stesso viola che ora era spalmato sul bordo del bicchiere. I ciuffi di capelli bruni sfuggiti dalla treccia sfatta le si appiccicavano sulla fronte sudata, costellata da qualche foruncolo appena visibile, reduce da una furiosa acne giovanile. Lei rideva perché dieci minuti prima aveva trovato esilarante qualcosa all’interno del suo piatto, e da allora non aveva smesso. Sussulti di ilarità a stento contenuta si alternavano a esplosioni violente di risate che la scuotevano come un fuscello al vento. Così la guardava divertirsi di fronte ad un piatto di tortellini, desiderando ardentemente di poter entrare nel suo mondo, di poter sbirciare anche solo per un istante dallo spiraglio della quotidianità la sua fulgida essenza. Parve rasserenarsi solo un momento. Le deliziose rughe sulla fronte si distesero, gli angoli della bocca ripresero la loro inclinazione naturale e le labbra nascosero i denti. Il petto si alzava e si abbassava velocemente, e così la curva splendida del seno; il respiro tornò regolare e l’accesso di ilarità terminò rapidamente così come era iniziato. «Ti diverti?» le chiese con un filo di voce, bassa e strozzata perché non trapelasse l’emozione che gli chiudeva la gola. Esplose nuovamente in una risata; colpì inavvertitamente le gambe del tavolo con il piccolo piede e i bicchieri – quello quasi vuoto di lei e quello mezzo pieno di lui – ondeggiarono pericolosamente, minacciando di rovesciarsi e inzuppare di birra la tovaglia. Lei si accorse del pericolo, allungò le mani per afferrare i bicchieri prima che cadessero, li urtò con i pollici e quelli caddero sul fianco. Presero a rotolare, vomitando sulla tovaglia bianca i loro liquidi; si avvicinavano al bordo del tavolo, verso la loro fine. Lei scattò fulminea per afferrarli prima dell’inevitabile, ma calcolò male le distanze e i bicchieri esplosero, infrangendosi al suolo. L’attenzione degli altri avventori del ristorante venne attirata dal successivo boato della risata di lei, più che dal rumore dei bicchieri. Lui era rimasto immobile a fissare l’evolversi della scena, con un’espressione di apatica partecipazione; si grattò il pomo d’Adamo con la punta dell’indice e si raddrizzò l’orologio sul polso. La guardava ridere, agitarsi, muoversi goffamente nel tentativo maldestro di riparare a tutti i suoi errori. La guardava ridere dei suoi sbagli. Gioire nella vergogna sociale che avrebbe sotterrato lui come terriccio puzzolente. Ma non lei: lei era marea vitale, flusso della stordente potenza femminile. Lei era tutto ciò che chiunque altra non sarebbe mai stata. Non angelica, non diabolica, ma profondamente umana e terrena. La vide alzarsi barcollando, poi sparire sotto al tavolo per raccogliere i vetri rotti dei bicchieri. L’etichetta gli ordinò di scattare in piedi: non poteva permettersi di rimanere intontito a guardare. La raggiunse sotto il tavolo e la guardò di nascosto, da dietro la coltre di capelli spettinati, mentre entrambi raccoglievano i piccoli frammenti di vetro. Lei ridacchiava ancora sotto voce, apparentemente persa nel suo mondo così comico; il suo vestito azzurro si era macchiato di cibo e di birra, che ora colava in un minuscolo rivolo lungo il ginocchio e il polpaccio esile. «Lascia fare a me. Non preoccuparti.» le disse nel tono più fermamente dolce di cui era capace. Lei sollevò lo sguardo, puntò gli occhioni chiari e umidi nei suoi piccoli e nervosi; il cuore gli precipitò nel petto e atterrò in fondo allo stomaco. Lui prese un pezzetto di vetro senza prestare attenzione, e lo strinse troppo forte tra le dita; emerse una lacrima di sangue che si rapprese in fretta sulle labbra del taglio. Ma se ne accorse solo più tardi. «No, no, no, non dovete farlo voi. Su, su, in piedi, sono venuto io per pulire.» strillò una voce al di sopra delle loro teste, troppo stridula per essere maschile, troppo roca per essere femminile. Lui sollevò lo sguardo, e vide un cameriere ergersi regale come una statua, stringendo scopa e paletta come scudo e spada. Aveva dei baffetti appiccicosi e lucidi sopra le labbra striminzite, che spingeva volutamente in fuori per dar loro un inutile risalto. Il naso era asimmetrico e un campo minato di punti neri; gli occhi arrossati e la fronte sudata per il caldo delle cucine. Il grembiule rifulgeva di candore se non per una piccola macchietta marroncina davanti ad una delle cosce. Sembrava impaziente che i clienti si allontanassero dalla scena del crimine per poter esaminare i cadaveri dei bicchieri infranti. Quando anche lei si accorse del minaccioso cameriere, le sfuggì una risata dal naso che avrebbe potuto essere scambiata per un grugnito; si schiarì la voce e rise di nuovo. Il cameriere arricciò le labbra in un sorriso unticcio che voleva nascondere una spiccata malevolenza verso il genere femminile. «Mi pagano anche per questo.» disse con un tono inspiegabilmente malizioso, rivolto unicamente a lui. Con la scopa raccolse i frammenti di vetro, li ammonticchiò e poi li diede in pasto alla paletta. «Li ripago. Metteteli in conto. Sul mio conto. Nostro.» ed esplose di nuovo in una violenta risata. Il cameriere fece un piccolo inchino imbarazzato, si voltò e borbottò qualcosa sotto i baffi. I due si sedettero ai loro posti. Improvvisamente lei divenne taciturna, e iniziò a fissare un punto del vuoto con aria malinconica. Lui ripensò alla sua nonna, così lontana nel tempo e nello spazio: anche lei osservava il suo personale punto del nulla con quello sguardo, con la sigaretta smilza che le pendeva dalle labbra secche. «Non me li faranno pagare, vero?» «Il conto l’abbiamo già pagato. Dubito ne apriranno un altro per dei bicchieri rotti.» «Oh.» Silenzio. Forse un silenzio limaccioso in cui affondano i piedi e le gambe, e più ci si muove tra una conversazione posticcia e l’altra più si affonda. Forse un silenzio di parole pensate e non dette, un silenzio da film in cui gli occhi prendono il posto della voce. Forse un silenzio di passaggio, un silenzio che è sceso alla fermata sbagliata del treno e che presto prenderà quello successivo. Forse un silenzio non significa nulla. Ma non c’era silenzio, in realtà. La sala del ristorante rimbombava di parole che ronzavano nelle orecchie e nella testa. Voci e rumore di stoviglie, di bicchieri tintinnanti, di posate, di denti e di voci. Il silenzio non esisteva nel loro spazio fisico: era rimasto impigliato nel loro spazio mentale, nel loro tempo. E scavava tra di loro. Se mai un loro c’era stato. «Eccomi. La macchina è qui fuori in doppia fila, quindi muoviamoci.» disse lui, arrivando come una saetta dall’ingresso; portò tra di loro l’aria fredda dell’esterno che gli aveva impregnato i vestiti. Le posò le mani sulle spalle e un bacio sulla fronte sudata. Si pulì le labbra di nascosto, con il dorso della mano. «Tesoro, ho rotto i bicchieri.» mormorò lei, con un tono che lasciava trapelare un senso di colpa fasullo. «Cos’hai fatto?» «I bicchieri. Li ho fatti cadere.» «Sei proprio una cretina.». Lei rideva ora. Non c’era più silenzio né nel loro spazio fisico, né nel loro tempo, né da nessun’altra parte nel mondo. Forse ne era rimasta solo una briciola in un piccolo posticino insignificante. «Lo sai che ho bevuto troppo.» «Tu bevi sempre troppo. Forza, andiamo.». Lui la aiutò ad alzarsi dalla sedia sollevandola dalle ascelle e poi lo guardò, come ricordandosi alla fine della sua esistenza. «Vuoi uno strappo fino a casa?» «No, grazie. Torno a piedi.» «Come ti pare. La riaccompagno altrimenti non so cos’altro può combinare. Grazie della bella serata.» «Grazie a voi, ciao.» «Ciao.» «Ciao!» urlò lei dal fondo della sala, agitando la mano con forza. Guardò in basso, e intravide il luccichio di un frammento di vetro che il cameriere non aveva visto e non aveva raccolto. Ora che era rimasto solo poteva mettersi comodo e rilassarsi, finalmente. In fondo, erano rimasti lì solo per un paio d’ore, ma sentiva la necessità di tornare a casa. Aveva solamente bisogno di un bagno caldo, o di una doccia fredda; voleva ancora bere solo un bicchiere, magari bourbon o brandy. Questa volta da solo. Il silenzio che si era rifugiato dentro di lui uscì allo scoperto ed invase lo spazio fisico.

Comments