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I moribondi

  • Immagine del redattore: Giorgia Valt
    Giorgia Valt
  • 16 feb 2017
  • Tempo di lettura: 3 min

Il mio primo ricordo è quello di un cagnolino morto. Non è un'immagine vivida, non è una fotografia nella mia mente. Io non ho ricordi fatti così. È piuttosto un fascio di sensazioni tra le quali figura anche quella visiva, certo distorta dalle circostanze in cui si è impressa questa memoria.

Mamma mi tirava per la mano e faticavo a starle dietro. A quanto pare il mio primo ricordo risale agli anni in cui già camminavo per strada senza troppe difficoltà. Mi strattonava e io ero distratta dalle vetrine dalle scarpe dalle persone e d'un tratto, in un angolo, un cagnolino. Era la prima volta che ne vedevo uno da così vicino perché mamma ha sempre avuto paura degli animali che ti fissano negli occhi. Era sdraiato su un pezzo di cartone marrone e aveva il pelo bianco e nero. Era sporco, e si vedevano anche dei grumi gialli nelle orecchie e ai bordi degli occhi chiusi.

Ho urlato qualcosa tipo ehi mamma un cagnolino e lei si è fermata a guardare il cagnolino. Dopo un paio di secondi mi ha strattonato di nuovo, questa volta con una violenza che solo il terrore può generare. Tesoro è morto, non vedi? Io non l'avevo vista, la morte. Non ero riuscita a vederne il colore, la forma, nemmeno l'ombra sopra il corpicino del cane; allora ho pensato che forse la morte era dentro. Ho pensato che la morte era entrata dentro il cane e l'aveva spento, gli aveva chiuso gli occhi. Negli anni, questo mio pensiero si è evoluto ed è maturato. Dopo la morte di entrambi i miei nonni in un incidente ferroviario, di una tartaruga per la solitudine e di un criceto per indigestione, della madre di Anna per un tumore al seno e di mio zio per un tumore alla gola, della maestra delle elementari per vecchiaia, del fidanzato di mio sorella per un indecente in autostrada, ho capito che la morte non entra dentro le cose.

La morte è già nelle cose.

La morte esiste e vive in uno stadio embrionale in qualche punto del cervello, imprigionata in una gabbia di neuroni e sinapsi, al sicuro dalla parte cosciente della psiche; e ad un certo punto della vita riesce a fuggire per le circostanze più svariate. I tumori, fanno fuggire la morte; gli incidenti, la depressione, il freddo e il caldo, la fame e la sete. La morte scappa dalla sua gabbia e esplode, prende possesso di ogni cosa e in una frazione di secondo non esiste più niente se non lei stessa. Oppure scivola fuori dalla prigione come un verme, si insinua, scava nella mente e nel corpo e raggiunge le punte delle dita e il cuore. A volte la morte ti uccide lentamente, a volte invece in un battito di ciglia. Quindi la morte è già nel mio cervello, e ci convivo ogni singolo giorno. Parlo con persone che hanno la morte dentro al cervello, accarezzo la testolina del mio gatto e sotto le mie dita vive la morte. Oggi ho allungato il biglietto del treno ad un controllore panciuto e con il fiatone per aver fatto le scale che portano al piano superiore della carrozza: mentre osservavo i suoi occhi vacui e le vene gonfie sulla fronte e sulla testa pelata ho pensato cavolo, la morte nel suo cervello deve proprio starsi dibattendo come una pazza. Forse sta per liberarsi e io assisterò alla sua fuga. Invece l'omone mi ha restituito il biglietto e ha zoppicato via, verso il fondo della carrozza. Ho provato una sorta di sollievo deluso mentre buttavo il biglietto nel fondo della borsa.

Mi sto trasformando in una di quelle persone paranoiche che vanno dallo psichiatra senza risolvere niente. Lentamente sto iniziando a convincermi che la gente con cui parlo non sia viva, ma sia potenzialmente morta. E la cosa non mi turba più di tanto, dal momento che anche io sono potenzialmente morta.

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