Michele, mi fai piangere
- Giorgia Valt
- 16 set 2017
- Tempo di lettura: 3 min
I dischi di Caparezza raccontano sempre una storia. Che sia un tour al museo oppure la folle vicenda di Ilaria teletrasportata dal ’69, Capa costruisce con i brani dei suoi album una trama e un filo logico. Non si smentisce nemmeno questa volta: solo che oggi Michele non ci racconta dei deliri della società, ma ci parla dei suoi drammi interiori, delle sue difficoltà di uomo imprigionato nei panni del musicista. Ogni canzone rappresenta una tappa del percorso che parte dalla presa di coscienza del problema di fondo sino alla piena accettazione. Il tutto, dietro la rodata, ma in questo caso efficace, metafora dell’evasione di un condannato.
Non ho nessuna voglia di scrivere una recensione per spiegarvi quanto sia piacevole e godibile Prisoner 709. Lo è, piacevole e godibile. E non ho voglia di spiegarvi cosa significhi prosopagnosia, di cosa parli ogni singola traccia e dei simbolismi di cui è costellata. Quello che voglio è raccontare cosa ho provato io ascoltando l’album, questa mattina in metropolitana.
Il suo dolore esplode fin da subito. Non è Caparezza, che canta, è Michele; e mi sta dicendo – sì, lo sta dicendo a me – di come si senta intrappolato nella vita che ha sempre desiderato, e non può nemmeno lamentarsi perché tutti quanti sono dalla sua parte, sono sempre cortesi con lui. Nemmeno si riconosce più, allo specchio. E io mi sento in colpa: è colpa mia, che salto e urlo ai suoi concerti, che conosco tutti i suoi testi a memoria. E’ colpa mia se ha sofferto. E’ colpa tua.
Il reato, la pena, il peso della colpa. E non c’è giustizia a questo mondo, sapete? L’amore impossibile tra Atlante e Dike si conclude con la disfatta del titano, e il mondo gli cade addosso in modo irreparabile. E si cerca la consolazione e il sollievo nella religione e nell’analisi, una via per capire e per sentire che qualcosa ha ancora un senso. Ma forse non basta, forse nonostante questo sollievo tanto ricercato non riusciamo ad arrivare dove vorremmo andare, e non ci resta che continuare a provare e provare.
Ma no. Non è vero che non sei capace. E va bene così, accetto le mie difficoltà, e ci vado incontro quasi a testa alta; fino all’inferno e ritorno. Basta lamentarsi, non serve a niente: l’unica cosa che può farmi stare meglio è fare quello che mi fa stare bene.
Mi tocca fare i conti con ciò che mi ha resa quella che sono, cerco di metterci una pezza, ma quella consapevolezza, quel ronzio nelle orecchie, mi fa impazzire. Mi tortura ogni singolo giorno, e non posso fare altro che accettarlo. E, ok, sono quella che sono, anche se a volte non mi riconosco, anche se a volte sogno di poter andarmene da tutto questo e ricominciare da capo.
No, aspetta, aspetta. C’è qualcosa che ancora non torna. Chi cazzo sono io? Mi guardo allo specchio, e sono davvero io, quella lì? Non è bastato farmi aprire il cervello per trovare un sollievo a questa tortura, perché ancora io non so chi sono. Non mi riconosco.
Forse…forse perché quello che si vede al di fuori è solo una finzione. Forse io sono intrappolata all’interno di una realtà finta, di una finzione talmente vera da diventare reale. Io come tutti quanti. La mia vera me c’è, è qui sotto, esiste e non si vede.
Questo è sollievo. Accetto questa prigione, accetto questa tortura, e per certi versi continuo a non riconoscermi: ma esistono dei momenti in cui io sono me stessa, in cui io sono vera e lo so solamente io. E va bene così. Sono libera nella mia prigione.
Aspetta. Di chi parlava, questo album? Ah sì. Di Caparezza.

Comments