Per forza di cose. Parte 1
- Giorgia Valt
- 3 ago 2017
- Tempo di lettura: 12 min
Collaborazione con Nubius Dee
Sono dieci minuti che sospira. Guarda fuori dalla vetrina e sospira. Chissà a cosa pensa: ai nostri anni trascorsi, agli amanti nei letti, a quelle nuvole. Non parla, quando si perde nei pensieri. Non che mi dia fastidio il silenzio: anzi, sono uno dei più grandi fan del silenzio. Ma lei non sta tacendo, in questo non parlare. I movimenti degli occhi, i sospiri, le micro espressioni delle sopracciglia, le oscillazioni dei capelli: mi sta dicendo delle cose che io non ho voglia di sentire.
Di punto in bianco inizia a stropicciarsi un occhio. Con il cazzo di pollice. Da un paio di mesi ha preso questa abitudine tremenda, e io lo so da dove viene; cazzo se lo so. La guardo intensamente e mi accorgo di star strizzando le palpebre in un’espressione arcigna. Voglio che lei la veda, voglio che lei sappia quanto mi manda fuori di testa vederla fare così.
Ho visto per la prima volta questo modo di stropicciarsi gli occhi quando mi ha presentato Mauro. Quell’infame schifoso ha passato tutto il tempo della festa a torturarsi le palpebre con quel pollice di merda, mentre parlava con i presenti, mentre mangiava, mentre beveva. Sicuramente anche mentre cagava al cesso. Era la festa di Natale dell’azienda di Agata, e Mauro era il nuovo collega, di cui lei non ha mai smesso di parlare per settimane. E dopo qualche giorno da quella festa aziendale, anche lei aveva iniziato a stropicciarsi l’occhio così.
Secondo me hanno già scopato. Sui tavoli dell’ufficio, o nello sgabuzzino delle pulizie, nei bagni, ovunque. Un sacco di sesso, che schifezza. Lei ha smesso di parlarne, di Mauro. Certo, perché hanno iniziato una relazione segreta e vuole tenere un profilo basso. Mi fa incazzare da morire. Non riesco nemmeno più a guardarla senza farmi salire la bile. Non riesco nemmeno più a guardarla.
Lei non dice niente. Guarda fuori, ancora, e si gratta il dorso di una mano con la punta delle unghie laccate. E eccola di nuovo con quel pollice. Oddio, mi farà impazzire. Non mi degna nemmeno di un’occhiata diretta, perché io lo so che mi sta guardando di sottecchi. Smettila. Gesù Cristo, smettila. Cazzo.
«Ehi.»
«Ah?». Ha un’aria scocciata, si vede che non vorrebbe essere qui. Pensa a Mauro, e lo sta cercando fuori dalla vetrina. Lancia un rapido sguardo all’unghia del pollice e al tatuaggio che ha sulla mano.
«Cosa pensi?»
«Io? No, niente.». Che bugiarda.
Eccolo lo stronzo che mi sono scelta, manco a cercarlo col lanternino, cazzo. Paolo, sposa Paolo diceva mia madre. Ma che cazzo mi hai fatto fare, dico io? Questo bolso egoista senza palle, con ‘sta riga in mezzo che s’impomata col gel tutte le mattine. Un ragazzino di cinquanta e passa anni. Ecco cos’è diventato. Guarda quanto gliene fotte di cogliere i segnali che mi chiede quotidianamente a parole, guarda quanto gliene sbatte allo stronzo. Ci mette il cuore dice lui. Ci mette il cuore un cazzo, dico io. Il cazzo ci mette, ecco tutto quello che ci mette. Tutto quello che gli importa è di scoparmi quelle due volte al mese quando Luisa è via. Dio…di questa merda di pollice tra poco non mi resterà che l’osso e lui continua a guardare fuori dalla vetrina i culi delle mogli degli altri. “Almeno non ti avessi incontrato, io che qui sto morendo, e tu che mangi il gelato”. Lucio Dalla, non avresti saputo dirla meglio di così. Sono io. E guarda che colore di merda che ha il cielo oggi, che colore di merda la sua camicia firmata, fetida camicia che gli ho regalato una vita fa, per il gusto di farlo sentire importante, quando credevo fosse ancora un uomo. Il cielo ha lo stesso colore del giorno in cui Luisa è venuta a trovarci a casa, la troia…cos’era? Un martedì…no probabilmente mercoledì, sì doveva essere mercoledì 27 marzo…sì doveva essere il giorno dopo la laurea di Nicola. Quasi due anni fa. Il tempo vola quando ci si diverte. E tu lo sai bene eh, pezzo di merda? Gli è arrivato lo stipendio quel giorno, al bolso, e quel giorno stesso sono spariti duecento euro dal suo conto, chissà come. E’ stato fuori quasi tutta la notte, quel giorno. Puttaniere del cazzo, lui e la sua troia tutta denti. Se penso che non aveva neanche un paio di pantaloni puliti da mettersi il giorno della laurea di suo figlio…
«Finito il caffè, Agata?».
Cazzo te ne frega. «Finito, sì».
«Nicola è a casa? Stasera fa gli anni, no? Dovremmo regalargli qualcosa. Io stasera ho poi la partita di calcetto alle nove, facciamo che festeggiare domani. Ok?».
«Già, dovremmo regalargli qualcosa». Facile interessarti ai tuoi figli con Luisa in America, vero? E di Elisa ti ricordi? Ti ricordi che tra un mese si sposa? Te lo ricordi, amore? Amore …amore?? Cazzo, ogni tanto mi scappa, mi scappa ancora. Mi viene ancora da chiamarti amore, anche quando guardi il culo delle passanti fuori dalle vetrine. Perché? Perché ancora? Se penso che sei così stronzo da essere geloso di un poveraccio come Mauro, con la sua erre moscia e le mani sudaticce e piccole, quel suo isterico mordicchiarsi le dita. Dio quanto sei stronzo. Aver pensato che possa essere andata con un essere del genere. E due mesi per convincerti che non è così, cazzo, che con quello non c’andrei a letto manco fosse l’ultimo uomo rimasto vivo su ‘sta terra. Ma d’altronde la stima che hai di me è questa. Pensa, pensa a tuo figlio, stronzo, pensaci e facciamogli un bel regalino anche quest’anno, mentre tutto qui frana e a stento ti ricordi come mi chiamo. E quando la tua faccia di merda mi seppellirà scrivi pure sulla lapide il tuo epitaffio di merda. E poi corri a scoparti Luisa, e dille che finalmente mi avete uccisa, che ce l’avete fatta.
«Andiamo, Agata?».
«Sì, andiamo pure».
Cristo santo. Finiscila con quei sorrisetti di merda. Quanto vorrei essere lontanissimo da qui, in Pakistan, o che cazzo ne so io. A migliaia di chilometri da questa stronza. Non ne posso più. Sì, vorrei essere con Alfredo e gli altri: vorrei passare la notte fuori con loro, a ballare e a guardare da lontano le gnocche di vent’anni. Quante volte siamo rimasti fuori tutta la notte, a fingere di essere giovani.
Arrivati alla cassa, mi prende sotto braccio e mi guarda fisso negli occhi. Si è abbuffata come un maiale di ogni tipo di torta e biscotto, ha bevuto di tutto, e ora pretende che paghi io. La deliziosa ragazza alla cassa ci squadra e sorride con un angolo delle sue meravigliose labbra scure, sicuramente invidiando l’amore struggente che c’è tra di noi. Povera piccola: un giorno capirai cos’è la vita.
Ancora sorridendo, ci allunga uno scontrino da quarantadue euro. Porca puttana, che cazzo. Metto sul bancone una banconota da cinquanta e suggerisco alla ragazza di tenersi il resto. Mi volto senza nemmeno godermi la sua reazione estasiata.
Solo ora mi rendo conto che ci stiamo toccando. E mi viene in mente che sono mesi che non scopiamo; in realtà, sono mesi che non scopo con nessuno. E’ vero, quando le cose hanno iniziato ad andare male c’era stata quella volta con Luisa. Che squallore, cazzo: una delle scopate più miserevoli della mia esistenza. E anche l’ultima, finora. Ogni tanto ci penso ancora, a Luisa: dopo quel pomeriggio ci siamo sentiti molto di rado, e da quando è partita non ci siamo proprio più sentiti. E meno male, cazzo.
«Tesoro?». Lei non risponde, ma so che mi ha sentito. Il miele di questa parola dimenticata ci si appiccica addosso e ci lascia invischiati.
«Agata?»
«Eh.»
«Gli prendiamo una camicia?»
«Gliene abbiamo regalate tre per Natale.»
«Ah.»
Sì, d’accordo, me l’ero dimenticato. Lo so cosa stai pensando, stronza: sono un padre di merda, un marito di merda, un uomo di merda. Vaffanculo.
Dio che pesantezza. Ho mangiato troppo. Dovrei pagare la mia parte, cazzo, ma ho dimenticato il portafogli a casa. E ora come glielo dico? Beh, con tutto il rispetto, porca merda, tu ti fotti Luisa da tre anni buoni e io devo star qui a rodermi il culo perché non ho dietro venti euro di merda con cui pagarmi il conto? Tre pezzi di torta alle fragole, un fottuto croissant integrale farcito di Nutella farlocca e due cappucci per mandare in broda il tutto. Venti euro porca troia. Paga, va. E ringrazia che ancora ti chiami amore. E poi proprio sto bar di merda dovevi scegliere? L’hai fatto apposta. Sapevi che non avevo dietro il portafogli, l’hai visto sulla mensola del salotto prima di uscire, sapevi che non l’avevo dietro. Tanto umiliarmi è il tuo passatempo preferito, quasi uno sport per te. Il bar più caro dell’intero litorale, il pezzo di merda. Eccoti lì, col medio ancora sporco di tonnata. Dio che schifo quell’unghia curata, ho sposato una donnetta cazzo. Tu e il tuo caviale, tu e le tue scarpe da vela, tu che vent’anni fa cantavi al Flower Day con le pezze al culo. Eri bello allora. Guarda come cazzo ti sei ridotto, facocero di merda, che l’inferno ti divori tutt’intero. Quando Nicola ti chiama papà mi si chiude lo stomaco.
«Bene. Pagare ho pagato, andiamo Agata?».
«Mh-mh».
«Che ne dici di un libro?».
«Andata».
C’è una foto stupenda, una sola, dove lo stringi al petto, avrà avuto due anni, e tu mi amavi ancora, e sapevi ancora dirmi che mi amavi, e la notte mi stringevi forte, mi raccoglievi tra le braccia, e cantavi, cantavi per me. Ci addormentavamo insieme, ci risvegliavamo insieme. Mi amavi, sì, questo lo so per certo. Eravamo al mare quando scattai quella foto, sembrava che tutto andasse alla grande. Abbiamo fatto l’amore sulla sabbia finissima, quella notte, tra fantasmi di preservativi di altri, Nicola con tua madre a casa. Non dimenticherò mai quella sigaretta, appena finito di rimbalzare da una duna all’altra, ce la scambiammo come quel giorno al liceo, quando nel prato di fronte alla bidelleria il mio rossetto colorò il filtro e quando lo portasti alle labbra te le tinse di mirtillo. E il bacio fu così spontaneo che a ripensarcimi viene da piangere. Eravamo belli allora… la gente ci invidiava e i portici bruciavano in mezzo alla città mentre noi correvamo per mano nello stomaco caldo. Nel migliore dei mondi possibili.
«Hemingway?».
«Ok. Feltrinelli?».
«Andata».
Hemingway. Lo sai che non mi piace, cazzo. Tutta quella finta virilità, quell’inutile parlare del nulla. Devi farmi incazzare anche per queste idiozie, ti diverti a stuzzicarmi. Che cosa vuoi ottenere? Stiamo combattendo una guerra e non sappiamo nemmeno cosa si vince.
Non mi ha lasciato il braccio, da quando siamo usciti. La sua mano è aggrappata con forza al mio bicipite, ma con il corpo si tiene distante. E non solo con il corpo. Un po’ si guarda le punte dei piedi e un po’ guarda verso il cielo. Cazzo, che giornata di merda.
L’auto non è parcheggiata molto distante, ma stiamo camminando a passo spedito per raggiungerla il prima possibile così da mettere tra di noi la voce della radio. Quando eravamo più giovani non la accendevamo mai, la radio: non ce avevamo bisogno. C’era una radio meravigliosa in camera sua e stava sempre spenta. La accendevamo solo quando lei voleva ballare nuda, dopo la doccia. Spesso facevamo sesso, dopo che aveva ballato.
Entrati in macchina, il profumo di pelle nuova mi invade le narici e per un secondo mi distrae dall’acredine che sento nella gola. Questo odore è più piacevole e intenso del profumo della pelle umida di una donna, della carne sulla griglia, dell’erba appena tagliata. È l’odore dei soldi. E anche lei lo apprezza: è inutile che neghi quanto apprezza i miei soldi.
Non si allaccia neanche la cintura che ha già acceso la radio. Nessuno dei due la ascolta, siamo persi nei nostri mondi. Mentre guido nel traffico cittadino, penso ai miei figli. Ripenso a quando erano piccoli, a quando Nicola ed Elisa facevano assieme il bagno al mare. I loro costumi erano così piccoli, così deliziosi. Anche il tuo costume, Agata, era delizioso. Cazzo, quanto eri bella con quel bikini blu che ti strizzava il culo e prendevi il sole sdraiata sulla sabbia. Io fumavo una sigaretta dietro l’altra e guardavo i bambini e guardavo il tuo culo. Non è durato molto.
«Lì c’era un parcheggio, Paolo.»
«Non l’avevo visto. Ora torno indietro.»
«No, no. Vai avanti, ne troviamo un altro.»
E sei diventata una persona diversa. Sei diventata una stronza assetata di vendetta, perché non sono stato l’uomo che avresti voluto. Nemmeno tu lo sei stata per me: volevo una donna bellissima che mi accogliesse a casa con un bacio quando tornavo stanco dal lavoro, che si preoccupasse di cucinarmi le lasagne il giorno dei mio compleanno. Che non si preoccupasse troppo di quello che pensavano i parenti e i vicini. Che fosse sempre entusiasta a letto. Volevo te, ma poi sei cambiata.
«Eccolo.» dice indicando un posto libero.
Mentre faccio manovra per parcheggiare cerco di tenere a bada la rabbia che sta ricominciando a montarmi nel petto.
Ballavo nuda con la torcia in mano, per lui, nella stanza col pavimento a scacchi, e intorno correvano le zanzare. Era estate, inutile dirlo, e il soffitto perdeva acqua. Una piccola perdita. Ci divertivamo a immaginare cosa volesse dirci, l’acqua, con quel suo disegnare umide figure. Ogni giorno diverse. Si improvvisava, allora. Odio i sentimentalismi, li odiavo, li ho sempre odiati. Li odierò a vita. Eppure adesso mi viene da piangere. Mi guardava da sotto quelle sue sopracciglia cespugliose, mi teneva la mano e mi guardava. Mi toccava il seno e mi guardava. Mi leccava e mi guardava dritto negli occhi. E non c’era giorno che non mi cercasse. Quando gli correvo davanti al parco, in bicicletta, mi voltavo all’improvviso per il puro gusto di vederlo con gli occhi incollati al mio culo stretto nei pants neri. Eccitato. Allora ci si poteva rovesciare all’improvviso nei prati, nudi, spogliarsi per il desiderio, scopare tra gli scoiattoli, a qualunque ora del giorno e della notte. Desiderio genuino. Vero. Galattico. Quanta banalità, quanta nostalgia, quanta merda poi passata sotto i ponti. Senza radio. Con radio.
E’ vero, l’ho accesa io. Quella tua voce nasale da bauscia sono anni che mi dà fastidio, sono anni che non la sopporto più.
Nascondi la verità dietro quelle tue guanciotte molli da cane bastonato, non sai più dosare il pepe sulle parole, non scrivi più, non suoni più. Ti masturbi di nascosto piuttosto che sfiorarmi con un dito. Ti scopi quella troia stitica.
Cosa ci resta? Cosa resta prima di quelle notti, oltre quelle notti in cui facevamo l’amore al fiume, cosa resta di quei tre mesi in cui Nicola non voleva darci soddisfazione, non voleva venire, e noi scopavamo e piangevamo continuamente, ci commuovevamo, litigavamo per ore prima di cadere sul divano, per scopare di nuovo e di nuovo e di nuovo e rimettere tutto a posto, con la forza dei nervi tesi nell’utopia? Cosa resta di quelle promesse che sbandieravi ai quattro venti, ad amici parenti conoscenti. Ecco cosa resta: quattro parole malcagate al vento, a casaccio. Un letto gelido da mesi, il tuo cazzo in tiro per mille culi fighe tette. Io non esisto più, per te.
Leggevamo libri su libri, insieme. E quando partivi per i tuoi viaggi di lavoro mi lasciavi un bacio in bocca, uno sul cuscino vicino alle ciglia, e te ne andavi su quelle tue gambe muscolose, lunghe e pelose, lasciando al di qua della porta un sorriso che mi sarebbe potuto bastare per una vita intera.
Poi te li sei rimangiati uno ad uno quei sorrisi, quei baci te li sei risucchiati in bocca, pronto a dilapidarli con chissà quante puttane, e ora le mutande ti vanno strette ogni qual volta una scosciata ti sfili davanti per strada. Quanto mi fai schifo.
«Hai tolto le luci, Paolo?».
«Tolte, sì, possiamo andare. Dobbiamo passare da tua madre più tardi? Ti ho già detto che alle nove devo essere al campetto con gli altri, no?».
«Non saprei. Se non hai tempo vado da sola».
«Mh…vediamo che ora si fa».
Al campetto, certo. Al campetto. Due anni che va avanti ‘sta presa per il culo. Al campetto. E se Luisa è in America chissà con chi si vede, il testa di cazzo.
Ma perché continui a fare così? Dio, non riesco più a sopportarlo. Stringo forte tra le mani la pelle del volante un secondo prima di scendere dall’auto per evitare di mollarti una sberla. Sono sicuro che sverresti all’istante, cazzo. Ti starebbe pure bene.
Ogni volta che apri bocca vorrei urlarti di stare zitta. Sento una tale rabbia dentro, la sento proprio nello stomaco che si attorciglia e si dibatte. Tra i pensieri frullano anche centinaia di insulti, offese. Dio non sono mai stato così, da dove cazzo mi viene tutto questo odio. Mi arriva sulla soglia delle labbra e lo inghiottisco, amaro. Solo per il bene dei nostri figli.
La Feltrinelli non è molto lontana, solo qualche centinaio di metri. Lei mi cammina poco davanti e si dà un’aria di altera solitudine. Senza volerlo, l’occhio mi cade sul suo fondoschiena rotondo; subito distolgo lo sguardo, come se ormai mi fosse proibito. Che cosa penso, ormai mi è proibito: protetto da una muraglia di acredine. Il sole sta calando, dietro ai palazzi.
Entriamo e subito Agata attira l’attenzione di un’inserviente e le fa cenno di avvicinarsi. Ma che cosa cazzo stai facendo, lo abbiamo già deciso cosa prendere. No, invece deve coinvolgere altre persone, persone che ci giudicheranno, che parleranno alle nostre spalle: solo per questa sua smania di farsi apprezzare dagli estranei. Mentre parla con la donna, si tocca l’occhio con il pollice e lo sfrega leggermente. Gesù, cosa devo sopportare.
«Sto cercando un regalo per mio figlio. Cosa mi consiglia?». Che merda che sei. Tuo figlio. Come se io non fossi presente, come se l’inserviente non mi avesse già lanciato un’occhiata tremendamente eloquente quando hai iniziato a parlare. Ti piace farlo vedere a tutti che mi odi, eh, stronza?
Le due iniziano a borbottare, commentando le ultime uscite e i grandi classici. E, sorpresa, optano per Hemingway. Hai plagiato anche me perché ti chiedessi di sposarti? I sentimenti che avevi da giovane sono appassiti e sono diventati cenere, dentro di te.
Agata fa per seguire la donna nelle viscere del negozio, ma la fermo mettendole una mano sulla spalla. «Non credo che Hemingway vada bene per Nicola.»
«Ma cosa cazzo ne sai, tu?» sibila con la voce rotta dall’odio. Santo cielo, Agata. Cosa siamo diventati.

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