Il corvo grasso
- Giorgia Valt
- 31 mag 2017
- Tempo di lettura: 6 min
Appoggiò il fondoschiena contro il muro, passandosi una mano tra i capelli. Il cielo era nuvoloso, e si riusciva solo ad intravedere l’alone latteo della luna da dietro le coltri. La luce giallo ocra delle lampade esterne creava un’atmosfera malsana; le ombre generate da quella luce sembravano avere una materialità inquietante. Erano le tre e mezza e iniziava a sentire il sopore della notte: prese dalla tasca esterna dei pantaloni un piccolo termos e inghiottì una generosa sorsata di caffè americano tiepido. Nella tasca interna del cappotto teneva la fiaschetta con il bourbon, ma quella era riservata alle emergenze della paranoia. Aveva trovato quel lavoro un paio di mesi prima: dopo un colloquio solamente formale era stato assunto con un contratto a tempo indeterminato che gli garantiva uno stipendio più che dignitoso. Dopo la prima notte passata a sorvegliare un magazzino completamente vuoto, aveva capito il motivo dell’assenza di altri candidati. Il suo impiego era molto semplice: ogni notte per tutta la notte, doveva aggirarsi lungo il perimetro del capannone e al suo interno, e assicurarsi che non ci fosse nessuno intenzionato a rubare in un magazzino deserto. Era un lavoro trascorso nella solitudine e nel silenzio. Dal momento che non era necessario più di un guardiano per un magazzino vuoto, Leonardo passava la notte da solo; e non poteva telefonare a nessuno dal momento che tutte le persone a cui valeva la pena di telefonare sicuramente stavano dormendo. Così, dopo la prima notte, aveva acquistato una piccola radio portatile che teneva accesa con gli auricolari nei momenti in cui pativa maggiormente il senso di solitudine. Si grattò il naso, e sospirò di nuovo. Riprese il suo giro di ispezione: percorse la parete esterna, facendo scorrere la punta delle dita contro il muro ruvido, fino a raggiungere l’ingresso al suo gabbiotto, una piccola stanza all’interno del magazzino. Aprì la porta tirando con forza, dal momento che spesso il fondo si incastrava nel pavimento irregolare; entrò nello stanzino, si tolse il cappotto gettandolo sull’appendiabiti e si lasciò cadere sulla sedia dietro la minuscola scrivania. Il tavolo era talmente piccolo che aveva solo spazio per un paio di monitor antiquati con il tubo catodico: trasmettevano le immagini riprese dalle due telecamere di sorveglianza. Il video di queste riprese era di una qualità talmente pessima che all’inizio Leonardo aveva fatto davvero fatica a capire se fossero immagini dell’interno o dell’esterno del capannone. Appoggiò la fronte sul legno plastificato della scrivania. Perché il proprietario del magazzino non aveva i fondi per sostituire quelle telecamere vecchie di vent’anni, ma ne aveva abbastanza per pagare un guardiano otto ore a notte per sei giorni a settimana? Nessuno gli aveva spiegato niente, quando era stato assunto: gli era stato solo mostrato quanto fosse facile il lavoro di un guardiano che non custodiva nulla. Sospirò e chiuse gli occhi, sentendosi come colto da un violento blackout. Tutta l’aria gli fuggì dai polmoni e si sentì svenire: Leonardo si addormentò per dieci secondi. Quando si svegliò, la sua bocca era impastata e le sue palpebre di piombo; strizzò gli occhi e spalancò la bocca quanto poteva per sgranchirsi la mandibola. Prese il termos e bevve altro caffè. Agitò la bottiglia e si accorse che il caffè era quasi finito, nonostante avesse ancora altre tre ore di lavoro davanti a sé. Appoggiando il mento sul palmo della mano, guardò distrattamente le immagini nei due monitor. Uno trasmetteva la ripresa dell’area esterna di fronte all’ingresso del magazzino, poco distante dalla porta del gabbiotto, e l’altro uno scorcio trasversale dell’interno. Il monitor sull’esterno inquadrava un’area piuttosto esigua, giusto per riprendere chi dovesse entrare o uscire dall’ingresso del magazzino. Come se dei ladri entrassero dalla porta principale chiedendo permesso. La telecamera all’interno invece riusciva a riprendere quasi tutta la superficie del capannone, lasciando esclusi gli angoli perché fuori dall’area inquadrata o perché troppo in ombra. L’immagine era talmente buia che era davvero difficile distinguere i contorni tra il pavimento e le pareti: Leonardo, qualche giorno prima, aveva fatto richiesta per una telecamera a infrarossi per riuscire ad avere una buona visuale sull’interno del magazzino. Ovviamente, non aveva ricevuto alcuna risposta, e così era obbligato a strizzare gli occhi per riuscire a vedere qualcosa nell’immagine sul piccolo monitor. Accese la radio, inserendo in un solo orecchio l’auricolare delle cuffie. «-nostro numero e raccontateci la vostra esperienza!». Il programma era già iniziato, e erano già partiti con le telefonate; una volta, un paio di settimane prima, lui aveva telefonato alla stazione per riferire la sua esperienza con le meduse, ma non era riuscito ad essere selezionato per parlare con i deejay e così ci aveva rinunciato molto in fretta. Per una decina di minuti ascoltò distrattamente pubblicità di automobili, di scatole, di talent show per bambini; e poi telefonate insulse, per la maggior parte finte e tutte quante noiose. Mentre con un orecchio sentiva le voci e i suoni della stazione radio notturna, con l’altro ascoltava il ronzio dei vecchi monitor. Tenendo ancora il mento appoggiato sul palmo della mano, i suoi occhi iniziarono a chiudersi, accompagnati dalla nenia del programma radiofonico. Nel profondo della sua mente assonnata risuonava l’imperativo del suo lavoro: doveva stare sveglio ancora per poche ore. Muovendosi come in una bolla ovattata, prese il termos con il caffè e bevve l’ultimo sorso, nella speranza che il movimento del suo corpo potesse svegliare anche i suoi occhi. Con un gesto stizzito, spense la radio, annoiato a morte dalle frasi vuote e dalla pubblicità continua; appoggiò il dispositivo e la matassa di fili degli auricolari sul tavolo. Scosse il capo e cercò di concentrarsi su qualche dettaglio dell’ambiente per poter riattivare anche il cervello: il suo sguardo si posò sul monitor dell’esterno. Guardò attentamente l’immagine, scrutando tutti i dettagli per riuscire a svegliare la sua mente, quando in un angolo del monitor vide del movimento. In una frazione di secondo, Leonardo fu completamente sveglio. Qualcosa si stava muovendo lì fuori, poco distante da lui. Con il cuore che batteva rapidamente, la sua capacità visiva amplificata dalla tensione ma comunque affaticata, Leonardo rimase immobile fissando l’immagine alla ricerca di qualche segnale di pericolo. I suoi occhi bruciavano e la sua gola era secca: tenendo lo sguardo fisso sull’immagine della telecamera, si alzò e prese la fiaschetta nella tasca interna del giubbotto. Si gettò sulla lingua una generosa sorsata e il sapore intenso dell’alcool gli invase la bocca e la gola, inondando poi lo stomaco con un calore bruciante. C’era qualcuno lì fuori. Lo aveva visto per davvero, lo aveva visto con la coda dell’occhio. Aveva captato il rapido movimento di una figura scura, di un ladro, di un assassino. Pochi secondi dopo, nell’immagine si mosse quello che sembrava un corvo grasso, che saltellava davanti all’ingresso del magazzino beccando delle briciole sul terreno. Leonardo sospirando si abbandonò sullo schienale della sedia, sperando che assieme all’aria potesse uscire dalla sua bocca anche la tensione provata in quei pochi attimi. Prese un’altra sorsata di bourbon e chiuse gli occhi. Che pirla. Sentì uno schianto secco provenire dall’interno del magazzino. Era stato un rumore metallico, molto intenso, che aveva riecheggiato nella vuotezza del capannone per interminabili secondi. Il cuore di Leonardo esplose in una galoppata forsennata: sentiva le pulsazioni nello stomaco, nella fossetta alla base della gola, dietro gli occhi, ovunque nel suo corpo. Non era stato un corvo, il movimento che aveva visto nel monitor: c’era qualcuno, ed era riuscito ad entrare nel magazzino. Era un ladro, o forse una banda di assassini, o magari un’associazione di mafiosi che si erano introdotti nel capannone per uccidere il povero guardiano e rubare il tesoro nascosto in un magazzino completamente deserto. Leonardo rimase paralizzato per qualche minuto, con la testa affollata di pensieri. Si incolpava per aver accettato un lavoro palesemente pericoloso, una mansione che non avrebbe portato altro che guai. Guardava in basso, per paura di vedere davvero qualcuno nel monitor: aveva paura di sapere che non si stava sbagliando. Con i sensi acuiti dal terrore, gli sembrava di sentire un parlottio sommesso provenire dall’interno del capannone, dei rumori metallici attutiti e lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia sottile sul pavimento. I suoi respiri si erano fatti brevi e rapidissimi, lo stomaco si era irrigidito e mandava delle fitte violente. Senza volerlo, sollevò lo sguardo e guardò nel monitor. Dentro il magazzino non c’era nessuno. O meglio, Leonardo non riusciva a vedere nessuno nell’inquadratura: ma sapeva che i ladri avevano sicuramente studiato la luce della telecamera e stavano evitando accuratamente di venire ripresi. C’erano, erano lì e si nascondevano nei punti ciechi. Non poteva assolutamente entrare nel magazzino e controllare cosa stava succedendo. Non era armato: aveva in dotazione solamente una specie di manganello che non sapeva usare. Non poteva mettere in pericolo la sua vita per un lavoro che detestava. Leonardo si svuotò la fiaschetta di bourbon in bocca, deglutendo in tre grandi sorsate tutto il liquido che era rimasto. Doveva andarsene, abbandonare il magazzino con il tesoro nascosto ai malviventi ma avere salva la vita. Si sarebbe assunto tutte le responsabilità derivanti da questa scelta, sarebbe stato anche disposto a finire in carcere: tuttavia, il terrore che sentiva nelle vene in quel momento era talmente tanto che avrebbe giustificato una reazione estrema come quella di abbandonare la sua posizione. Forse il suo datore di lavoro avrebbe capito, o forse no. Non era importante. Doveva andarsene da lì. Muovendosi con lentezza per evitare di produrre qualsiasi rumore, scostò la sedia e si alzò in piedi. Abbassò la maniglia della porta sull’esterno, la socchiuse piano cercando di ridurre al minimo il rumore dello sfregamento della porta sul pavimento, e uscì lasciando la porta aperta. Una volta fuori, si rese conto di aver lasciato nel gabbiotto la fiaschetta, la radio e il giubbotto, ma ormai era troppo pericoloso rientrare. Il corvo grasso era ancora davanti all’ingresso del magazzino: quando vide Leonardo, volò via gracchiando nella luce gialla.

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