L'elaborazione
- Giorgia Valt
- 10 apr 2017
- Tempo di lettura: 4 min
Si voltò dall’altra parte, socchiudendo gli occhi infastidita dalla tenue luce che filtrava dalle tende tirate. Si sentiva frastornata da mille pensieri che faticava a gestire, da una sorta di sommesso e penetrante ronzio nella sua testa. Si rannicchiò, abbracciando le ginocchia. Sentiva dei suoni provenire da dietro le finestre, delle voci sconosciute che parlavano, che si confrontavano. Dicevano cose di cui lei non avrebbe fatto parte fintanto che si trovava dietro la finestra. Avrebbe voluto tendere una mano, in modo che la sua pelle bianca potesse venire abbracciata dalla luce che c’era fuori. Avrebbe allo stesso modo voluto immergersi nel materasso, divenire tessuto, filo, ferro, molle. Muta, cieca e sorda. Immergersi nel suo sé e affondare. Ripensò a quando era piccola, quando andava in piscina con papà. Si lasciava affondare come un peso morto fino a toccare il fondo della vasca, espirando completamente tutta l’aria. Rimaneva così per qualche secondo, con i polmoni accartocciati e il petto schiacciato, a osservare il cielo sopra di lei infrangersi nelle increspature dell’acqua. E il sole che disegnava sul suo corpo strisce cangianti di luce che ondeggiavano. Si guardava le braccia e le gambe tese, sentendosi bella e acquea, guardava le gambe e i piedi di suo padre accanto a lei. Sapeva che sul suo volto era disegnato un sorriso giocondo ma che dentro di lui ruggiva una preoccupazione cupa e quasi incontrollata. Sospirò, sdraiandosi prona. Si mise entrambe le mani sul basso ventre e sospirò di nuovo. Sentiva ora un’acuta insofferenza, dovuta forse al ricordo che le aveva invaso la mente o forse alla sensazione di vuoto che provava. Doveva alzarsi, doveva fare cose che non aveva intenzione di fare per prendere tempo, magari per perderlo. Doveva tenere la mente occupata, non pensare. Si sdraiò supina, mettendo questa volta le mani sul petto, in mezzo ai seni. Avrebbe potuto alzarsi dal letto, farsi una doccia bollente, una di quelle che portano al confine dello svenimento. Poi farsi un caffè, lavare i piatti, lavare i pavimenti e le finestre, lavare qualsiasi cosa fosse sporco. Lavare quella sensazione di inconcludenza. Infine avrebbe potuto uscire, girovagare a lungo, talmente a lungo da dimenticare il suo nome e quell’abbandono che non era mai avvenuto. Si mise sul fianco destro, appoggiando il ginocchio e la mano sinistra sul materasso. Aggiustò la posizione della testa sul cuscino, in modo che l’orecchino smettesse di farle male al padiglione auricolare; non riuscendo a trovare un punto che non le causasse dolore, si sdraiò di nuovo a pancia in su. Ma il ferretto del reggiseno si era scoperto dal lembo di tessuto che lo copriva, quindi le graffiava la schiena. Si mise sulla pancia, lasciando penzolare dal letto un braccio; le mancò il respiro e si sdraiò sul fianco. Vibrò forte il telefono sul comodino, distogliendola dai suoi pensieri confusi. Pareva che quel ronzio insistente provenisse da dentro la sua testa, da dietro i suoi occhi. La tramortiva, la stordiva; doveva farlo smettere. Allungò la mano, alla cieca ricerca del cellulare; tastò oggetti, assaporò con ogni polpastrello le sensazioni tattili, la superfici che stentava a riconoscere, le pagine ammonticchiate, la plastica della lampada. Intanto quel mostro urlava, vibrava furiosamente, le chiedeva attenzione, dammi attenzione. Lo avvertì con la punta delle dita, poco lontano dal letto. Fece per stringerlo, quando in pochi istanti fu tutto finito. Niente più vibrazione, niente più stordimento. Per pochi secondi si sentì colpevole di non aver dato all’oggetto l’attenzione che chiedeva e che si meritava; quando il senso di colpa scivolò via dal suo stomaco, una briciola nascosta di curiosità insoddisfatta esplose in una delusione forte che la lasciò dispiaciuta e arrabbiata con se stessa. Si girò sull’altro lato, avvicinandosi al muro, schiacciando il naso contro la parete fredda. Cosa doveva fare, adesso? Disperarsi per la perdita, disperarsi per l’assenza, per quella chiamata persa. Cosa voleva fare? Alzarsi e andare a fare cose, alzarsi e non pensare. Sospirò, sentendo addosso la sensazione di smarrimento causata da quello stato che timidamente nella sua testa iniziava a definire depressione. Tentava di giustificare questa temibile etichetta, perché in fondo era legittimo che lei fosse depressa, nessuno l’avrebbe biasimata se si fosse definita depressa. Ma allo stesso tempo trovava dei motivi per scrollarsi di dosso quella parola, dato che non aveva nessun motivo per essere depressa: in fondo quello che era morto dentro di lei era solo un raggrumo di cellule. Nessun cuore, nessun cervello di cui sentire la mancanza. Nessun viso, né organi che l’avessero abbandonata. Non piedi, non manine. Solo delle cellule formatesi dentro di lei con il suo stesso essere. Scoppiò a piangere. Il suo corpo spoglio era scosso da violenti tremiti e da singhiozzi talmente forti che le doleva la base della gola e lo sterno. Presa da una frenesia quasi maniacale, si alzò dal letto e ondeggiò fino al bagno, aggrappandosi alle pareti e ai mobili. Per un istante la percezione di sé si separò dal suo corpo, si allontanò dalla sua coscienza e si osservò dal di fuori, quasi come un naturalista osserverebbe un gorilla. Sembrava invasata, sembrava posseduta da qualche demone: doveva calmarsi e darsi immediatamente un contegno. Arrivò in bagno e chiuse a chiave la porta alle sue spalle; tirò un sospiro di sollievo, sentendosi finalmente libera dal giudizio critico della sua coscienza. Lì avrebbe potuto vivere in pace il suo dolore e il suo senso di solitudine. Si avvicinò con cautela allo specchio, temendo l’istante in cui avrebbe visto il suo riflesso. Guardò i suoi capelli arruffati e spettinati, i segni delle lenzuola sulle guance e sul collo. Seguì con lo sguardo il profilo dei suoi zigomi, della sua mandibola. Studiò le minuscole vene scure che contornavano i suoi occhi arrossati. Il naso screpolato dal sole, il trucco sbavato e colato, le labbra pallide, i piccoli foruncoli sul mento, le sopracciglia da assottigliare, gli iridi chiari e le pupille nere. Avrebbe tanto voluto che suo figlio avesse avuto i suoi stessi occhi.

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